di Clelia Arduini | Foto di Marco Lupis
Fermare il degrado e l’abbandono del borgo antico del Tirreno. Con questo scopo due fratelli aprono il primo albergo diffuso della Calabria. E attirano turisti e visitatori da tutto il mondo
Tutto comincia da “a praca”, the rock, la roccia, e da due fratelli tosti come la pietra. The rock è la monumentale roccia sulla quale sorge il castello e il paese di Belmonte Calabro, in provincia di Cosenza, a 25 chilometri dall’aeroporto di Lamezia Terme. Un mosaico di civiltà greca e angioina a circa 300 metri sopra l’acqua del Tirreno, che al largo è blu cobalto e mette ansia, e a riva è verde smeraldo. Come le piante dei capperi giganti che punteggiano il territorio e l’acquasantiera della chiesa del Purgatorio realizzata in serpentino che qui chiamano marmo verde di Belmonte, un banco isolato di roccia metamorfica nei pressi del paese, del tipo usato per il Duomo di Prato. Roccia, serpentino e tufo – altra pietra del territorio usata per secoli dagli scalpellini per lastre e stipiti di finestre e gradini delle abitazioni e dei vari monumenti religiosi – raccontano con umiltà ma anche con orgoglio di che pasta è fatto questo angolo di Calabria battuto dal vento, che vivifica odori e colori e in certe mattine d’autunno apre una finestra incantata sulle isole Eolie e l’irruenza di Stromboli.
Ma la bellezza in sé non riempie la pancia ed è difficile tener duro quando bisogna lasciare il paradiso perché il lavoro è altrove e il blu del mare diventa un fastidio perché non sai che farne. Specie quando il centro comincia a morire, le pietre diventano ragnatele di gramigna e l’unico rumore è quello delle onde che si infrangono giù, alla marina. È la storia infinita del nostro Sud, bello, fragile e troppo solo. Ogni tanto però le storie presentano colpi di scena e metamorfosi. Come i pomodori giganti di Belmonte che possono arrivare a pesare fino a due chili: dopo l’importazione dall’America a fine Ottocento è probabile che il prodotto abbia acquisito le caratteristiche del territorio e sia mutato in qualcosa di unico. Si mangia come una bistecca e ne ha la stessa consistenza. Duro, corposo, della stessa materia di cui sono fatti i fratelli Suriano: Gianfranco e Giuseppe, detto Pino, che da alcuni anni hanno ingaggiato una lotta all’ultimo sangue contro il degrado del paese dove sono cresciuti, causato da spopolamento, pendolarismo, crisi economica.
Con un ingente investimento personale e senza contributi pubblici i due imprenditori hanno trasformato il borgo in qualcosa di più che un albergo diffuso, modello di ospitalità già testato in altre parti d’Italia. Per Belmonte si può parlare di un vero e proprio presidio sociale che per ora accoglie i turisti in 14 deliziose casette (44 stanze in tutto) del centro. Tutte ristrutturate con materiali autoctoni nel rispetto dell’ambiente e della tradizione artigiana – e li fa vivere per qualche giorno la vita vera degli abitanti di Belmonte. Una comunità di oltre duemila anime, che così si sente apprezzata per il semplice fatto di far parte di un desiderabile angolo di storia e di paesaggio. Agli ospiti è garantita un’esperienza di silenzio, natura e attività legate alla terra e alle tradizioni. Così gli ospiti tedeschi imparano a fare il formaggio di capra, la ricotta e la stagionatura di salumi: dai capocolli alle soppressate e salsicce piccanti. Con un po’ di fortuna si può assaggiare anche il gammune, un salume divenuto presidio slow food. Secondo una tradizione ottocentesca si prepara disossando la coscia del maiale e perfezionando la stagionatura grazie al benefico influsso della brezza marina che non manca.
«All’inizio eravamo solo io e mio fratello – racconta Pino, 49 anni, belmontese “di quasi ritorno” visto che dopo gli studi ha avviato uno studio di commercialista a Perugia, dove trascorre solo la metà del tempo – poi siamo diventati dieci e oggi siamo 63. Abbiamo ricevuto il riconoscimento di albergo diffuso nazionale, il primo della Calabria, ma non possiamo sederci sugli allori, c’è tanto altro da inventare per promuovere il paese all’estero». Pino sorride e indica le casette colorate, le scalinate che si rincorrono per i “vichi” del borgo, i fiori invasati che brillano con i lampioni, la piazzetta, la trattoria che sa di buono. È un eroe dei nostri tempi, un po’ come Daniele Kihlgren, che nell’Aquilano ha ridato vita a Santo Stefano di Sessanio, divenuto un caso di recupero architettonico e sociale. Pino rappresenta un fortuito incrocio fra i tre celebri cittadini di Belmonte: il poeta rinascimentale Galeazzo di Tarsia di cui l’imprenditore prende cultura e sensibilità; il religioso Padre Giacinto, al servizio di papa Gregorio XVI, da cui mutua umiltà e tenacia; l’anarchico sindacalista Michele Bianchi, che gli travasa forza, irruenza e spirito visionario.
Alcuni turisti tedeschi annusano l’aria e guardano giù verso il Tirreno. Due argentini, dopo essersi scattati una lunga serie di selfie, chiedono qual è il punto più bello del parco marino Scogli di Isca, di cui il borgo è sede, dove immergersi. Un gruppetto di olandesi sta per intraprendere il percorso lungo il fiume Veri, che passa sotto diverse cascate, e sale in cima al monte Cocuzzo, a 1541 metri. Molti tornano per dare una mano all’organizzazione. «E pensare – conclude Pino – che abbiamo cominciato con un paio di case abbandonate, che stavano in piedi per miracolo, e ora guardiamo anche ad altri paesi come Amantea e Fiumefreddo, che possono seguire questa strada». In pochi mesi sono arrivati a Belmonte centinaia di turisti. Tutto merito di questo progetto che si chiama A praca, the rock, la roccia. E non poteva essere altrimenti: nel 1974 per costruire il Comune fecero saltare a Nord del borgo un costone di roccia. Per fortuna ce n’era un altro.