Il viaggiatore. Il segreto delle oasi

I palmizi del deserto del Sahara non devono le loro ricchezze a sorgenti sotterranee, ma a un ingegnoso sistema idraulico, il «foggarà» inventato migliaia di anni fa

Molti credono che le oasi abbiano una sorgente d’acqua che permette di irrigare i campi e di coltivarli. Ma il 90 per cento delle oasi (nella foto, un’oasi del Sahara) vive con l’acqua rubata dall’atmosfera. Se voi andate nel deserto e mettete due pietre in croce e poi tornatela mattina seguente potete notare che si è formata una certa umidità dalla parte non battuta dal sole. Moltiplicate per mille le pietre e fatene un pozzo profondo almeno 40-50 metri e avrete un sistema chiamato foggarà inventato migliaia di anni fa che sta alla base della vita del Sahara quando il Sahara non era ancora deserto ma savana ed era percorso dai carri dei Garamanti.
I foggarà possono essere profondi anche 50-60 metri e avere al fondo mezzo metro di acqua. Una volta dopo aver attraversato il grande Erg avevo trovato rifugio in un’oasi non particolarmente bella con palme rinsecchite e pochi orti di aglio e cipolla che non avevano più sapore. Il couscous che mangiavano era rancido e i dromedari spelacchiati. Questa decadenza dipendeva, mi spiegarono, dal fatto che i foggarà non funzionavano. L’acqua che si poteva ricavare era pochissima e non bastava per tutti gli abitanti. Io viaggiavo in compagnia del maggiore esperto italiano dei luoghi aridi, Pietro Laureano che parlava il tamasheq lingua franco sahariana, che vive a Matera ed è riuscito a fare entrare la cittadina della Basilicata nei luoghi protetti dall’Unesco. Faceva un caldo tremendo ed eravamo decisi a scendere per i cunicoli di un foggarà e metterci al fresco con i piedi nell’acqua sul fondo. Nello stesso tempo Pietro avrebbe potuto capire cosa non funzionava nel sistema idrico dell’oasi. Il cunicolo del pozzo era stretto e ostruito in parte da cocci che graffiano la pelle come rasoi e resti di stoviglie lasciati in quel posto secoli fa. Finalmente a gran fatica con il pericolo che il pozzo smottasse e ci seppellisse tutti e due, raggiungemmo il fondo dove erano depositati solo 30 centimetri d’acqua.
Con un urlo di gioia cominciammo a bere e a bagnarci schizzandoci l’acqua come dei ragazzini. La festa venne improvvisamente interrotta dalle voci che provenivano dal buio profondo del pozzo. Riaccesi la lampada che avevo spento e davanti a me comparvero cinque o sei ragazzine di dieci, undici anni tutte nude che stavano facendo il bagno nell’acqua.
Come ci videro per un momento furono atterrite dallo spavento. Poi abbracciandosi emanarono l’urlo di guerra berbero che viene soffiato tra i due denti incisivi e che si sente a una lontananza incredibile. Passarono pochi minuti e ci sentimmo afferrati da mani robuste che ci trascinavano in alto. Erano i guerrieri della tribù che pensavano fossimo scesi nel pozzo per guardare le ragazzine nude. Per fortuna Laureano sapeva il tamasheq e si rivolse con frasi alate e fiorite al capo tribù. Questi incantato dal poter parlare la sua lingua con i bianchi allontanò con un gesto imperioso i guerrieri che ci avevano catturato e ordinò un montone arrosto con riso.
Dopo tre ore il montone era pronto ma io non lo potei mangiare, perché mi scottavo regolarmente le dita, non sapevo arrotolare la pallottola di riso e buttarla direttamente in bocca senza farla toccare dalle labbra.
Alla fine del pasto il capo tribù che mi aveva completamente ignorato fino ad allora, perché avevo mangiato troppo male, con gesto delicato offrì a Laureano l’occhio del montone, la parte più prelibata per il più illustre degli ospiti.