di Isabella Brega | Fotografie di Zoe Vincenti
La bohème di Puccini, con Gianandrea Noseda sul podio e la regia di Àlex Ollé, de la Fura dels Baus, ha inaugurato la Stagione 2016-2017 e ha rimarcato il legame fra Torino e il proprio Teatro
Lo sanno anche i bambini. In teatro il viola è bandito. Questo infatti era il colore dei paramenti liturgici usati durante la Quaresima, quando erano vietati tutti i tipi di spettacoli. E gli attori facevano la fame. Eppure la rossa sala del Regio dell’architetto Carlo Mollino gioca con la linea curva e si diverte a ignorare questa superstizione, sfoggiando un soffitto lilla dominato da una cascata di stalattiti composta da 1.762 steli metallici con punti luce e 1.900 canne in perspex riflettente: un vero coup de théâtre.
Può permetterselo. Perché è il secondo teatro storico d’Italia, citato già nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Perché per lui hanno lavorato compositori del calibro di Gluck, Cimarosa, Paisiello, Rossini, Wagner, Massenet, Puccini e direttori leggendari come Arturo Toscanini e Richard Strauss. Perché dal 2006, dopo la crisi dell’industria, la grigia Torino della Fiat ha investito sulla cultura, dalle Olimpiadi invernali al Museo del Cinema, ad Artissima. Si è reinventata, ha cambiato passo e look, ha lavorato su progetti condivisi fra tutti gli attori locali ed è diventata una destinazione turistica. Il Regio è sempre stato aperto alla città, ai giovani e alle scuole, ospitando eventi e manifestazioni ed è luogo d’incontro per melomani internazionali e torinesi. Il loro teatro. Un teatro di cui andare fieri, per il numero e la bellezza degli allestimenti. Per la voglia di sperimentare, di esplorare tutte le cifre artistiche, azzardando anche collaborazioni con registi innovativi. Ma non ha cambiato il proprio temperamento e il modo di lavorare: tradizione, coerenza e creatività.
La Torino calvinista dal dna imperniato sull’etica del lavoro, tenace e misurata, che conosce la fatica e l’impegno si ritrova tutta nel marchio Teatro Regio, in quell’approccio serio, composto, onesto e sicuro delle proprie scelte, in quella preparazione attenta e scrupolosa di scenografie, costumi e maestranze, che non scade mai nel tecnicismo fine a se stesso. Che non ignora la passione tutta italiana per il bel canto e il bel fare, quelli che il mondo ci invidia. Nulla è lasciato al caso, la cura e l’attenzione per i particolari è massima e dà vita a quell’armonia, a quella bellezza fatta di sfumature che il pubblico percepisce. Perché tutto funziona, perché il caos apparente che brulica dietro le quinte all’alzarsi del sipario ritrova magicamente il suo posto. E quando si accendono i riflettori e il meccanismo si muove armoniosamente, l’opera riprende vita, si anima, nutrita di cuore e testa, di fatica e di sentimento. Ogni volta uguale, ogni volta diversa. Un unico respiro, un unico cuore che batte all’unisono e lega tecnici, pubblico, musicisti e cantanti in un momento prezioso e irripetibile.