di Giuseppe Scaraffia
Nella tarda primavera del 1925 Vladimir Majakóvskij fece un viaggio negli Stati Uniti. Rimase travolto ed entusiasta, ma restò comunque critico verso l’American way of life
«Ho bisogno di viaggiare. Avere a che fare con le cose vive sostituisce quasi del tutto la lettura dei libri», sosteneva Vladimir Majakóvskij. Nel 1925 aveva visitato il Messico e l’Avana, accolto trionfalmente dai progressisti che vedevano in quell’eccentrico poeta il rappresentante dell’unico stato comunista, la Russia sovietica. Alla frontiera con gli Stati Uniti il gigante dalla testa rasata, elegantemente vestito, spiccava tra la folla di persone di statura ridotta. Non parlando inglese, Majakóvskij si era infuriato con il funzionario dell’immigrazione ed era finito in una cella da cui l’avevano fatto uscire solo un interprete e una cauzione che dimezzava le sue scarse sostanze. Voleva capire quel continente sconosciuto. «È facile dire cose scontate, trite e ritrite degli americani: paese dei dollari, sciacalli dell’imperialismo ecc. Questo è solo un piccolo quadro dell’immenso film americano».
La pulsante confusione della Pennsylvania Station di New York lo aveva travolto. L’energia pulsava ovunque, persino nei gesti rapidi e precisi del lustrascarpe che pareva un giocoliere. Majakóvskij sopportava pazientemente le provocazioni dei giornalisti. «È vero che scrivete anche sulle capre per ordine del governo?». «È vero – rispose –. Meglio scrivere sulle capre per un governo intelligente che su un governo stupido per ordine delle capre». Era rimasto impressionato dall’incessante trasformazione di New York. «Persino i palazzi più nuovi e confortevoli sembrano provvisori, poiché tutta l’America è in continua costruzione. Un autentico e grande pathos edilizio». Amava la smisurata lunghezza degli edifici e i riflessi policromi dei semafori sull’asfalto lucidato dalla pioggia. Gli piacevano le folle di lavoratori che invadevano le strade, spartendole con le migliaia d’automobili colorate. Ma puntualizzava: «Odio New York di domenica, con gli impiegati in mutande dietro le tende degli appartamenti. IO AMO NEW-YORK nei giorni lavorativi, nei giorni feriali d’autunno». La concorrenza si sentiva nell’aria. Il successo era la meta comune di quel formicaio umano. Tutto era eccessivo, dalle case troppo ricche alle luci troppo brillanti. Ma se si osservavano bene i passanti si vedevano oltre ai visi soddisfatti e sicuri di sé una serie di facce smarrite.
Majakóvskij poteva passare dalla cordialità a un pesante mutismo, che si accentuava in pubblico. Rimaneva cupo, sedendosi lontano dagli altri. In quei casi si divertiva a mandare una persona adulta e rispettabile a comprargli le sigarette e, curiosamente, veniva sempre obbedito. Sapeva modulare il timbro possente della voce fonda per recitare i suoi versi con un notevole talento d’attore. I suoi complimenti aggressivi seducevano le donne. Aveva fatto innamorare una ventenne di origine russa, Elizaveta Petrovna – ma negli Stati Uniti aveva cambiato nome in Elly Jones –, che lo capiva perché non era solo un’avvenente modella, ma anche una eccellente traduttrice di poesia tedesca. La coppia faceva lunghe passeggiate durante le quali Majakóvskij recitava ad alta voce i versi a cui stava lavorando. Un anno dopo Elly partorì una bambina.