di Isabella Brega | Foto di Isabella Brega
Sulle tracce del compositore in una Toscana di ville, borghi, ulivi e vigne. Da scoprire con lentezza e curiosità, seguendo i ritmi che la natura impone.
Noi siamo gente avvezza alle piccole cose umili e silenziose/ a una tenerezza sfiorante e pur profonda come il ciel/ come l’onda del mare!
Così canta Cio-Cio-San nel primo atto della Madama Butterfly di Giacomo Puccini chiedendo al cinico Pinkerton «vogliatemi bene, un bene piccolino». Le piccole cose umili e silenziose della farfallina giapponese sono le stesse che riempiono di significato, che danno un senso e un valore ai borghi italiani, a quelle realtà dalla bellezza quieta e rassicurante così lontana dal clamore del turisdotto Venezia-Firenze-Roma (ora anche Milano) che attira sciami di turisti distratti e frettolosi. Quei borghi cui il Ministero dei beni culturali ha dedicato il 2017 e che costituiscono il tessuto culturale e sociale del nostro Paese, l’espressione più vera e autentica dei nostri saperi, sapori, saper fare, saper vivere. Quell’Italian way of life che il mondo ci invidia. Paesi nutriti di umiltà, ma anche di consapevolezza di quello che sono e di quello che possono offrire e di orgoglio per saperi antichi e autentici: custodi del fuoco non cultori della cenere. Quei borghi duttili e generosi che punteggiano le alture o si accucciano nei fondovalle, modellandosi sui terreni e incuneandosi nelle valli, che più di altri possono essere occasione di scoperte ordinarie e straordinarie per un turismo nutrito di quotidianità, consapevole, curioso, rispettoso. Per un mondo che va sempre più veloce infatti ce n’è un altro che sceglie la lentezza, che privilegia la qualità invece della quantità. Che non vuole solo aggiungere un trofeo al proprio palmarès turistico, non si limita a vedere ma vuole capire, vivere esperienze, confrontarsi e calarsi in una realtà fatta di usi e costumi, tradizioni culinarie, piccoli musei preziosi, silenziosi e ospitali.
A un’accoglienza standardizzata e distratta preferisce il senso di un’ospitalità sincera e di una storia fatta di persone e non di personaggi. A un artigianato di souvenir tutti uguali e di dubbia provenienza privilegia prodotti locali, autentici e ricchi di significato: prodotti di qualità espressione della qualità di un territorio. Quello che può offrire la Lucchesia, terra ruvida e affettuosa, forte e vitale, ferita dal dolore feroce dell’emigrazione. Terra di ferro e di fiori, di acque e di carbone, di mulini e cartiere, di musicisti e di agricoltori. Chiesette di madonne dalle guance rosate e putti birichini aggrappati alle loro gonne, di fontane linguacciute che borbottano con piazzette sgomitanti fra le case, di campanili che covano borghi e anime. Paesaggi solenni nella loro normalità, fiumi accarezzati da acacie e pioppi, uliveti allineati come soldatini su terrazze di pietra, castagni dai capelli bianchi che si arrampicano tenaci su monti scabri. Borghi dai giorni uguali ai giorni che hanno l’umiltà che spesso manca ai grandi e si uniscono per fare sistema, per offrire itinerari come quello che accosta musica e fiori, Puccini e le camelie, e coinvolge i Comuni di Pescaglia e Compiano. Qui l’umile Garfagnana cantata dal Carducci lascia il posto alla valle del Serchio che ha fatto da sfondo alla vita e alle armonie dei Puccini, una dinastia che “visse d’arte” per cinque generazioni e il cui frutto più luminoso fu Giacomo, diviso fra Lucca, con la casa natale, e Torre del Lago, luogo di melodie universali e di riti locali: la caccia, gli amici, le goliardate, le corse in automobile. Un mondo piccolo, circoscritto, rassicurante, borghese la cui eco, amplificata, risuonava oltreoceano, nelle sale scintillanti dei teatri del gran mondo.
Una vicenda che ha le sue radici nella minuscola Celle, dove si trovava la casa cinquecentesca della famiglia e dove nacque il primo dei musicisti, quello Jacopo Senior che vide la luce nel 1712. Qui Giacomo insieme al fratello Michele, destinato a morire a 27 anni in Argentina, trascorse molte estati. Circondato dalle tante donne di casa, la madre e sei sorelle affettuose come chiocce e dai nomi impossibili (i più brutti che il genitore, deluso nel suo desiderio di un maschio, riusciva a trovare quando invece nasceva una femmina: Tomaide, Macrina, Ramelde, Nitteti, Iginia, Otilia). Il padre morì giovane e per consentire ai figli di studiare l’energica matriarca Albina fu costretta a vendere anche la casa teatro di tante scorribande infantili. Ma il legame con Celle non si spezzò e nel 1897 quando Raffaello Franceschini, marito di Ramelde, la preferita fra le sorelle, ricomprò una casa nel borgo, il musicista così le scrisse: «Cara Ramelde, non puoi immaginare come ho sentito la tua lettera! Mi ha fatto più piacere di ogni andata bene! ... felicità... Grazie Celle!». Oggi inerpicandosi nelle viuzze lastricate del paesino, fra cortili, logge e piccoli orti si arriva al palazzotto aperto al pubblico grazie all’Associazione Lucchesi nel mondo, che lo ricomprò dalle nipoti del compositore nel 1973, arricchendone la collezione attraverso donazioni e acquisizioni. Qui sono conservati documenti, foto, oggetti e i biglietti ferocemente scherzosi con cui il grafomane Giacomo tempestava parenti e amici: il pianoforte su cui fu composta Butterfly, i dischi di musica popolare giapponese in bachelite chiesti all’ambasciatore per comporre l’opera ma non arrivati in tempo a casa del naufragio della nave che li trasportava. Oggi una vera rarità musicale al pari dell’unica registrazione esistente della voce di Giacomo che saluta gli Stati Uniti concludendo con uno squillante America forever!, lui che non riusciva a imparare «quel porco di inglese». Non manca neanche il grammofono Edison regalatogli dall’inventore stesso. Un oggetto poco amato, tanto da rifilarlo a Ramelde: «...tanti auguri, che il grammofono ti sia leggero». Fu a Celle che il compositore chiuse il cerchio della propria esistenza con un viaggio a dorso di mulo per ricevere la cittadinanza onoraria il 26 ottobre 1924. L’ultimo viaggio prima di partire per Bruxelles e tentare quell’operazione seguita da chemioterapia per un tumore alla gola che lo ucciderà il 29 novembre 1924, a 66 anni.
Le cose umili e piccole e la musica ritornano nel minuscolo teatrino di Vetriano, il borgo che diede invece i natali a Pier Angelo Sarti nel 1793, emigrato come tanti lucchesi all’estero, in Inghilterra, come figurinaio. Un nome sconosciuto ai più ma esempio luminoso di quegli ambulanti che tra il XVIII e il XIX secolo realizzavano e vendevano per le strade figurine di gesso riproducenti animali, re, personaggi mitologici e che, nobilitate da una patina similbronzea ottenuta grazie al fumo delle candele, ornavano anche le case più povere. Tradizione cui rende omaggio il Museo della figurina di gesso e dell’emigrazione di Coreglia. Esempio di tenacia, spirito di sacrificio e capacità, Sarti riuscì ad arrivare a capo dell’ufficio di formazione del British Museum, riproducendo in gesso i fregi del Partenone trafugati da Lord Elgin. Vetriano è entrato nel Guinnes dei primati per il suo teatrino del 1890, il più piccolo del mondo, voluto da una Società Paesana di 22 soci fondatori che si tassarono di due lire, con l’obbligo della manovalanza. Qui fino al 1960 la locale compagnia teatrale si esibiva davanti ad amici e parenti, che accorrevano portando ognuno la propria sedia da casa. Caduto in abbandono è stato riaperto per visite e rappresentazioni nel 2002.
Il piccolo mondo antico contadino si ritrova in tutta la sua autenticità e forza a Colognora, abbarbicata al monte come i castagni che la circondano, cui è dedicato un museo nato nel 1985 dalla passione generosa di Angelo e Roberto Frati. Bollita, arrostita, trasformata in farina per farne polenta dolce, castagnaccio e necci, la castagna fu per decenni il pane dei poveri. All’inizio del paese, attorcigliato intorno alla chiesa dei Ss. Michele e Caterina e agli austeri palazzetti dei Mattei o dei Ricci, dai portali e stipiti di finestre in pietra scalpellata a mano, nell’ex canonica la civiltà del castagno si racconta. Oggetti carichi di anni e di storia si affollano nelle fedeli ricostruzioni di ambienti che illustrano le fasi della lavorazione della pianta e il suo utilizzo per l’alimentazione e la realizzazione di utensili. Ma non è solo la storia del castagno a costituire il punto di forza di Colognora. Nelle sue vie lastricate sono risuonate le melodie della Wally dello sfortunato Alfredo Catalani, nato a Lucca nel 1854, amico di Puccini, morto nel 1893 a soli 39 anni a causa di quella tisi cui cercava conforto e rimedio a Colognora, mentre l’integrità urbanistica del borgo ne ha fatto la location di film come La donna del Nord o il più noto Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee. Carbonai, contadini, grandi lavoratori i lucchesi conobbero la piaga dell’emigrazione, invece i suoi abili mercanti e banchieri ne arricchirono il patrimonio artistico con quasi 150 ville costruite dal XV al XIX secolo. Ville la cui eleganza sobria e contenuta ben si armonizza con le camelie che ne ornano i giardini. Nel Comune di Capannori, a Pieve e a Sant’Andrea di Compito è un trionfo di ulivi, frantoi e camelieti come quelli che circondano Villa Orsi, Giovannetti, Terrarossa e la Chiusa Borrini, con la sua piantagione di the di straordinaria qualità, realizzata da Guido Cattolica. Degno erede di quell’Angelo Borrini di Lucca, medico e oculista alla corte di Carlo Lodovico di Borbone, collezionista e ibridatore di camelie, rappresentante di quella mania che a metà Ottocento fece di questo fiore, giunto un secolo prima dal Giappone, il simbolo della nobiltà e dell’alta borghesia, mentre l’uso di portare all’occhiello una camelia screziata divenne un segnale di riconoscimento fra i membri delle società segrete come la carboneria.
A Sant’Andrea grazie al Comune e al Centro culturale compitese su un’area di 10mila mq è nato un parco botanico dedicato alla camelia, con quasi mille cultivar. Nel 2016 il Camellietum Compitese è stato nominato Giardino di eccellenza, un riconoscimento di cui si possono fregiare solo 39 giardini al mondo. L’importanza di Sant’Andrea e Pieve di Compito è però legata alla mostra Antiche camelie della Lucchesia, mentre in ottobre anche l’olio ha la sua manifestazione di riferimento, Frantoi aperti, una tre giorni con visite e degustazione di quell’olio compitese che Giuseppe Mazzini veniva qui ad acquistare per rivenderlo e finanziare la Giovane Italia. Fra i “tiranni” contro cui si batteva il patriota c’erano anche i possessori di una fra le più belle residenze del territorio, Villa Reale a Marlia, di proprietà privata ma ora aperta al pubblico per visite ed eventi. Qui la Lucchesia vola alto, offrendo ai visitatori un parco di ben 16 ettari ricco di giochi d’acqua, giardini e grotte. Fulcro del complesso il palazzo legato ad Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone e sovrana del principato di Lucca e Piombino, che nel 1806 acquista una costruzione di origine medievale passata attraverso vari proprietari e la trasforma in un elegante edificio in stile neoclassico. Poi, con la caduta di Bonaparte, la proprietà arriva ai Borbone. Nel 1847 Carlo Ludovico abdica in favore di Leopoldo III di Lorena: Lucca, l’ex repubblica indipendente fino al 1799, non è più capitale, il suo territorio viene annesso al granducato di Toscana e abbandonati i fasti della Corte. E la Lucchesia ritrova la quiete dei suoi borghi.