Raffaello, dove nasce un artista

In contemporanea con l’uscita del primo film d’arte mai dedicato alla figura del maestro urbinate, siamo andati nella città dei Montefeltro. La stessa dei tempi del grande pittore. Dove si può ancora respirare l’atmosfera che nutrì le sue opere

 

La normalità non si addice all’artista. Ribelli e maledetti. Questo il luogo comune, l’immagine romantica del genio, essere straordinario, che tutto sperimenta, cui tutto è permesso. A questo si accompagna spesso una vita infelice, segnata dalla miseria e dalla sofferenza, che sembrano esaltarne e potenziarne le capacità espressive. Niente di ciò si adatta a Raffaello Sanzio da Urbino, uno dei massimi esponenti del Rinascimento italiano. Bello, gentile, signorile, rispettoso, ricco e amato, il più bell’ornamento della corte dei Montefeltro prima e di Leone X dopo. Non un giovane che ha bruciato la vita in furori esistenziali e creativi tipici di altri colleghi, artisti sommi ma talvolta uomini volgari e meschini, espressioni della sregolatezza e dell’ambiguità del genio. Raffaello un nome d’angelo, un cognome di santo, così diverso dal genio tormentato e terribile di Michelangelo o da quello scientificamente analitico di Leonardo. Per la nostra sensibilità moderna, l’Innominato è più intrigante di Fra’ Cristoforo, la strega cattiva ha più spessore di quella pupattola di Biancaneve, Caravaggio, con quella violenza e ribellione che sembrano dare senso e sapore al suo interrogarsi, più vero di un Raffaello cortese e rispettoso delle gerarchie. Come se la bontà, la bellezza e la felicità lo appiattissero in un personaggio banale, melenso e privo di fascino.

Neanche per quello che riguarda il gentil sesso il pittore di Urbino rientra nei cliché tradizionali. Niente sciupafemmine né figli illegittimi ma un’unica grande passione, la Fornarina, amata così intensamente da indurlo a quegli strapazzi che, secondo la tradizione, lo condussero alla morte a soli 37 anni. “Soli” 37, in questa scomparsa precoce Raffaello sembra rientrare nel genere “artista”. Eppure per l’epoca non cosa rara, visto che la vita media era di 45 anni. Due Venerdì Santi racchiudono la parabola del “divin pittore”. Tutto ebbe inizio il 28 marzo 1483, mentre le strade di Urbino, arrotolate intorno al colle su sui si erge la mole del Palazzo Ducale, celebrava i riti della Pasqua. Bella e con un nome che era già una promessa, Magia, la giovane madre. Pittore e letterato il padre Giovanni, al servizio della splendida corte dei Montefeltro. Una corte e un palazzo aperti alla città e nei cui saloni un uomo d’arme colto e intelligente, quel Federico dall’inconfondibile profilo segnato da una grave ferita ricevuta durante un torneo, aveva riunito il meglio della cultura del tempo: Piero della Francesca, Luciano Laurana, Leon Battista Alberti, Luca Pacioli, Paolo Uccello, Francesco di Giorgio Martini, Bramante. E ancora Bernardo Bibbiena, che qui, a cura di Giovanni Santi, responsabile delle messe in scena e delle scenografie, presentò La Calandria, una delle prime commedie satiriche italiane in volgare. Di questa ricchezza culturale si era nutrito il padre, artista modesto ma di merito superiore alla sorte. Di questo nutrì il piccolo Raffaello, dal talento precoce e dall’infanzia breve ma serena.

Anni felici che ancora risuonano nella casa natale del pittore, imprigionata dall’anello delle mura e aggrappata ai palazzi vicini in una sequenza serrata lungo un ripido pendio ritmato da scale e scalette. Anni di tenerezze, di bianche braccia morbide di abbracci, di baci schioccanti, di nenie per scacciare la paura del buio, di certezze che non lasciano spazio alle tenebre del dubbio, di sole che stana l’ombra. La scacchiera ordinata di campi e prati fra onde di colline, il girarrosto che balla con il fuoco del camino, la madia dagli odori pastosi e grati, gli scaldaletti in guerra con i morsi del freddo sotto montagne di coltri, i mosconi d’oro nel pulviscolo fremente della luce che muore, le corse a perdifiato sulle ripide discese, la malinconia di campane lontane. I lupini sbocconcellati insieme alla fretta di crescere, l’amuleto di corallo appeso al collo, il triplice segno di croce la mattina, la vescica del maiale appena ucciso gonfiata come un palloncino d’inverno, i panni gocciolanti appesi sulle stanghe all’esterno delle case insieme a stendardi di tende a dare conforto a camere assolate. Un mondo segreto di donne, serve e testine ricciute, fra cassapanche piene di abiti arrotolati stretti come fasce di bambini e biancheria che sa di felicità e di erbe odorose, che anima le stanze dei piani superiori, raccolte attorno al piccolo cortiletto con il pozzo dove sventola un fazzoletto di cielo, mentre a pianterreno nella bottega di Giovanni vivono angeli, santi e Madonne.

Raffaello, Raffaello: la voce del padre che sale dal laboratorio dove i garzoni mangiano, dormono e lavorano. Occhi sgranati ed eccitati, un paio di manine impazienti fra pennelli di martora, ali candide, aureole scintillanti, veli impalpabili, cieli di polvere. Resine, terre, cere, colle, lacche, amaranto, cremisi, morello, odori pungenti o dolciastri, labirinti sconosciuti di segni che magicamente prendono forma e senso, mentre Giovanni gli mette fra le dita un bastoncino bruciacchiato incoraggiandolo a disegnare. Perché il suo cuore di genitore ha già capito che quel bimbo sarà più grande di lui, ha già rinunciato a essere il suo solo e unico maestro. Perché Raffaello non appartiene a lui ma al proprio destino e al mondo. Per questo gli mostra come frantumare finemente diaspro e grafite per ottenere il rosso e il nero, gli insegna il disegno e l’uso del colore, lo educa alla bellezza. Lo prende per mano e lo porta fra le vie di Urbino, ieri e oggi le stesse, affollate di giovani affamati di futuro e di totalità. Lo porta in uno dei tanti oratori cittadini, quello di S. Giovanni, dove nel 1416 due fratelli di S. Severino Marche, Lorenzo e Jacopo Salimbeni, in un trionfo di oro e di blu hanno ricoperto le pareti con le Storie del Battista, culminanti in un drammatico e vitale Calvario sopra l’altare, fra uomini e donne irrigiditi nei canoni del gotico internazionale, cani che si grattano le orecchie, pesci spinosi e gamberi, cavalli scalpitanti. Lo porta a Palazzo Ducale, con le sue due alte torri e lo studiolo ligneo del duca, per ammirare Giovanni Boccati, Pedro Berruguete, Giusto di Gant, Piero della Francesca e le opere che fanno ancora onore alla collezione dei Montefeltro. Gli mostra la lunetta azzurra della Madonna col Bambino e Santi di Luca della Robbia che stempera la severità della facciata di S. Domenico, lo introduce alla bottega di Timoteo Viti e, a Perugia, a quella del Perugino, con il quale il figlio comincerà presto a collaborare e a confrontarsi. E Raffaello guarda, impara, assorbe come una spugna.

Ma la vita non fa sconti, neanche al divin pittore. Ha solo otto anni quando la morte entra in casa dei Santi strappandogli via prima la bella Magia e tre anni dopo lasciandolo orfano anche del padre-maestro. È in questo breve lasso di tempo che il piccolo Raffaello, già pittore, lascia sulle pareti della sua casa una straordinaria maternità sacra: un Bimbo paffutello addormentato in grembo alla Madonna intenta a leggere. Le braccine raccolte a cuscino, le mani affusolate della madre a trattenerlo nel nido del manto scuro che sottolinea la curva della piccola schiena: la prima delle bellissime, umanissime Vergini che costituiranno i tratti distintivi di Raffaello e che culmineranno nell’abbraccio geloso ed escludente della Madonna della seggiola e in quello trionfante della Madonna Sistina, cui assistono in basso i due petulanti angioletti che tutto il mondo conosce. L’infanzia è finita, ma Raffaello sa quello che vuole. Erede della bottega paterna comincia a produrre opere e a 17 anni, firmandosi "magister Rafael Johannis", porta a termine una serie di commesse per Città di Castello. La sua prima opera certa, L’incoronazione di San Nicola da Tolentino per la chiesa di S. Agostino, realizzata insieme a Evangelista da Pian di Meleto, collaboratore di Giovanni, di cui oggi sopravvivono solo quattro frammenti, e poi da solo uno stendardo per la confraternita della Trinità dei flagellanti e nel 1503, una Crocifissione con Santi per S. Domenico, ricca di echi perugineschi nell’equilibrio delle masse, armonie di gesti e dolcezza delle colorazioni. Perché è dal Perugino che Raffaello aveva assimilato con facilità e felicità pregi e caratteri, pur temperandone con quel suo senso della misura certe esagerazioni formali.

Echi perugineschi che per tutto il periodo umbro, fino al 1504, rimasero ben presenti nel pittore urbinate ma che risultano già superati nello Sposalizio della Vergine (1502-4) per la chiesa di S. Francesco, sviluppato dalla pala omonima del Perugino: il tempio più lontano e slanciato, il movimento delle persone più vivace, una maggior naturalezza e vivezza di racconto. Il maestro era dimenticato. A 21 anni Raffaello è il più grande pittore dell’Umbria. Urbino, la cara città natia che sarà sempre un punto di riferimento, gli sta stretta. Lo aspettano Firenze e i grandi artisti da studiare e assimilare: Masaccio, Giotto, Botticelli... E poi il grande salto, Roma, le commesse papali, Leonardo, Michelangelo, mentre le figure si fanno più sciolte, il disegno meno secco, il chiaroscuro più vivace, il colorito più vario, la composizione più armonica, la bellezza meno formale. A 28 anni, alla fine dei lavori in Vaticano, sarà il più grande pittore del mondo. Ma anche scultore, architetto, sovrintendente alle Antichità. La morte arriverà quasi tardi. Non c’era più niente da conquistare, Raffaello era il vertice della pittura classica italiana. Ma oggi... addio Magia, addio Giovanni, addio aquila dei Montefeltro. Bisogna partire... E partì.