di Roberto Casalini | Illustrazioni di Gianluca Biscalchin
Lo scrittore americano soggiornò varie volte nel nostro Paese: «Museo di splendore e miseria»
Che cosa vede la gente nei Vecchi Maestri? Sono stato nel Palazzo dei Dogi e ho visto diversi acri di brutti dipinti, di brutte prospettive e di proporzioni sbagliate. I cani di Paolo Veronese non assomigliano ai cani; tutti i cavalli sembrano delle vesciche con le gambe; un uomo aveva la gamba destra alla sinistra del suo corpo; nel grande quadro dove l’Imperatore (Barbarossa?) è prostrato davanti al Papa, ci sono tre uomini in primo piano che sono alti oltre trenta piedi, a giudicare dalle misure di un bambino inginocchiato proprio al centro del primo piano».
Di sicuro Mark Twain, che in Italia soggiorna ripetutamente (nel 1867, nel 1880, agli inizi del ‘900) non ha molte probabilità di cadere vittima della sindrome di Stendhal. Nelle sue pose da «innocente» c’è senz’altro un po’ di guasconeria, la volontà di non lasciarsi intimorire da un passato sfarzoso. C’è soprattutto il paragone fra il glorioso ieri e il misero oggi del Regno d’Italia, che si compiace del passato ma ha un presente «in bancarotta». L’avversione per i privilegi dell’aristocrazia e del clero («Perché non depredate la vostra Chiesa?») e la desolata constatazione che «l’Italia è un immenso museo di splendore e miseria. Il Paese più disgraziato e principesco che esista al mondo». Anche se alla fine della vita confesserà di avere sognato, lui che aveva esordito come pilota nel Mississippi, «che avevo moglie e figli e andavo ad abitare in una villa a Firenze». Quel sogno era diventato realtà.