Passione alla siciliana

In questa città i riti della Settimana Santa affondano le loro radici nel XVI secolo, quando a guidare le processioni era il Capitano della Real Maestranza, ruolo ancora oggi ambitissimo.
Il momento più emozionante è la processione del Giovedì Santo, con i carri che trasportano fino al Duomo le vare, grandi gruppi scultorei che raffigurano scene della Via Crucis

Sostengono i bene informati che le alte gerarchie cattoliche, riunite nel Concilio di Trento per arginare gli effetti della Riforma di Lutero, emanassero anche disposizioni per regolamentare e uniformare le cerimonie della Settimana Santa, comprese le sacre rappresentazioni della Passione e della Morte del Cristo, che avevano all’epoca un enorme seguito popolare.
In Spagna, più che altrove, i dettami del Concilio furono applicati, e i fastosi riti pasquali di Siviglia e di Saragozza ne sono il risultato ancora evidente. Spagna allora voleva anche dire Regno di Napoli e delle Due Sicilie: non desti dunque sorpresa il fatto che, ancora dopo secoli, la settimana che precede la Pasqua sia così sentita nell’Italia meridionale e soprattutto in Sicilia.
In particolare Caltanissetta, nel cuore dell’isola, vivono con speciale intensità le antiche tradizioni con un mix di riti sacri e profani che rende la settimana nissena un unicum che aspira anche al riconoscimento dell’Unesco. Alle processioni, e alle rappresentazioni (la Scinnenza, la deposizione) che si susseguono quasi senza sosta, si mescolano nel centro siciliano le consuetudini della Real Maestranza, una sorta di confraternita laica degli artigiani, che mette in scena articolate cerimonie pubbliche e private con un copione che si replica, con varianti e aggiustamenti, da mezzo millennio.
Di incerte origini medievali, la Maestranza fu costituita nel 1551 in vera e propria milizia per l’eventuale difesa della città da temute invasioni dei Turchi. La milizia era armata di picche e di archibugi e, per concessione di Ferdinando IV di Borbone, nel 1806, assunse il titolo di Reale. Era costituita dai mastri e capitanata da un nobile. Sfilava in gran pompa per la città la mattina del Mercoledì Santo, alla conclusione della cerimonia della Ostensione del Venerabile che seguiva 40 ore di venerazione, appunto, del Santissimo all’interno della chiesa madre.

Ancora oggi il rito si ripete coordinato dai responsabili delle corporazioni (il Sindacato Panificatori, gli Idraulici e Stagnini, i Barbieri, i Pittori Decoratori, l’Unione Muratori, i Marmisti, i Falegnami ed Ebanisti, l’Unione Carpentieri e Ferraioli, i Calzolai, i Pellettieri e Tappezzieri, e i Fabbri) con specifiche competenze e mansioni.
A tutto sovraintende il Capitano. Non più un nobile come in passato, ma, in tempi di democrazia, un mastro eletto, ogni anno, a turno, tra i membri delle diverse corporazioni.
Al Capitano, che veste un costume di foggia settecentesca nero, giacchetta con le code, e tanto di feluca e polpe, cinge una fascia tricolore e indossa una spada, spettano onori e riverenze. Glieli tributano, in pubblico e a domicilio, dopo che in municipio, il mercoledì mattina, ha ricevuto dal sindaco le chiavi della città (che restituirà solo la domenica di Pasqua). A casa del Capitano fanno la fila, all’ora del caffè e dei pasticcini, il prefetto, il presidente della Provincia, il sindaco, i comandanti militari, e il vescovo. Il Capitano attende le autorità seduto in poltrona, scortato da Scudiero, Gran Cerimoniere e Alfiere Maggiore, riceve i loro doni e ringrazia. Da Roma gli arriverà anche un dono speciale: l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica, le cui insegne sono, in tutte le occasioni, orgogliosamente ostentate da tutti gli ex capitani.
La grande sfilata della Maestranza lungo l’attuale Corso Umberto I che impressionò il Re borbone al punto di convincerlo a concederle il titolo di Reale (come si sarà chiamato allora il corso?), ha luogo nella mattinata: il Capitano, dopo le chiavi della città, prende in carico il crocifisso velato di nero nel cortile della biblioteca ospitata nell’antico monastero dei Gesuiti e intitolata a Luciano Scarabelli, (il letterato piacentino che donò al Comune 2.500 volumi a partire dal 1862), e lo porta in Duomo (da dove riuscirà, in processione, nel pomeriggio). Non mancano gli stendardi, i vestiti buoni e stirati, tutti neri, i papillon al collo dei mastri e le bande iniziano a suonare. Alla fine di tutte le processioni saranno stati almeno 700 i musicanti, di ogni età, che a ogni ora del giorno e della sera, avranno dato fiato alle trombe, ai clarini, ai tromboni, rullato i tamburi, percosso le grancasse e fatto risuonare i piatti!

La Settimana nissena è davvero lunga. Già la domenica precedente, quella delle Palme, c’è l’anteprima con la Processione di Gesù Nazareno, di origine contadina.Una statua del Cristo benedicente percorre in quel giorno la città su una barca ricoperta di fiori, come metafora del Redentore pescatore di anime.
Ma la processione più imponente si svolge il Giovedì Santo: è quella delle “vare”, 16 gruppi scultorei a grandezza naturale, trascinati su carri decorati. Rappresentano le 14 stazioni della Via Crucis e i momenti della Passione. Appartengono al Comune, a privati, a congregazioni e ai ceti della Maestranza e sfilano accompagnate da devoti e da bande per tutto il pomeriggio e la sera, sino allo scioglimento della processione dinanzi al Duomo, la Spartenza (separazione) per tornare in chiese e magazzini dove saranno custodite per l’intero anno.
Molte statue sono opera degli scultori Vincenzo e Francesco Biangardi, padre e figlio, napoletani, noti esponenti della scuola presepiale di fine Ottocento; altre di artisti a noi ignoti. Soprattutto nelle fasi del rientro, le statue sono rischiarate dalla luce di bengala che emanano anche fumi colorati. Dall’anno scorso tutte le statue sono esposte, durante la Settimana, lungo le navate del Duomo.
Nel cortile del Palazzo del Carmine, sede del Municipio fanno mostra di sé, invece, le Varicedde, copie in miniatura delle statue maggiori. Sono portate in processione durante la serata del mercoledì, giornata per i turisti che non vogliano perdersi niente. Anche in quest’occasione non mancano bande e fuochi artificiali. I gruppi sono 19, opera degli scultori Giuseppe Emma e Salvatore Capizzi e appartengono tutti a privati.

Non è finita qui. Il Venerdì Santo si celebra la processione del Cristo Nero, che in loco è nota come quella dei Fogliamari, i raccoglitori di verdure selvatiche, che all’imbrunire parte dalla chiesa del Signore della Città, nel quartiere di S. Francesco. In questa occasione il clero, quasi assente nelle altre celebrazioni, si mostra in pompa magna, vescovo in testa, e la modesta statua del Cristo, che si vuole annerito dal fumo dei tanti ceri accesi dai devoti nei secoli, risale per i vicoli del borgo antico sotto un imponente baldacchino portato a spalla proprio dai Fogliamari scalzi, in segno di penitenza, che urlano, in dialetto, le Lamentanze. La Maestranza, partecipa con le insegne avvolte da nastri neri. Manca il clamore di bande!
Il sabato è libero e la settimana si conclude la domenica di Pasqua, con la Maestranza che accompagna il vescovo nella cattedrale, dove celebra la Messa solenne. Il Capitano riconsegna al sindaco le chiavi della città; un addetto lascia volare colombe bianche come auspicio di pace e la folla viene benedetta. Alla sera, l’ultimo atto: la Scinnenza (dal siciliano scinniri, scendere), ovvero la Deposizione dalla Croce. Il Lunedì dell’Angelo si comincia a preparare i riti dell’anno successivo.

Fotografie di Massimo Pacifico