Palermo capitale aperta

Gianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni CiprianoGianni Cipriano

Ha ottenuto il titolo di Capitale italiana della cultura per il 2018 puntando soprattutto su accoglienza, condivisione e partecipazione. E lanciando iniziative comuni tra istituzioni, fondazioni e privati. Per fare sistema e mettere la città al centro di una rivoluzione della bellezza

«È come se avessero aperto dieci rubinetti tutti insieme». «È in corso un processo di riappropriazione della città dal basso». «Il patrimonio culturale è il futuro, anche economico». «Il senso di appartenenza e orgoglio è più diffuso». «Le istituzioni fanno sistema». Potrebbero essere titoli di un quotidiano ideale ma, in questo caso, le buone notizie fanno parte di un processo intenso e inarrestabile che ha coinvolto, nell’ultimo periodo, Palermo. Tutta Palermo, trasformandola in un modello da osservare, capire e studiare. Si comincia nel luglio 2015 quando la Palermo arabo normanna entra nell’elenco Unesco del Patrimonio dell’umanità. Nel novembre dello stesso anno viene scelta come sede per la Biennale europea di arte contemporanea Manifesta nel 2018. Nel gennaio 2017 vince infine un’altra sfida importante diventando la Capitale italiana della cultura per il 2018. Riconoscimenti che arrivano da fuori e che sono il frutto di un percorso complesso basato su concetti quali accoglienza, condivisione, inclusione e, ovviamente, valorizzazione del patrimonio culturale. Che Palermo sia sempre stata crocevia di persone, religioni e arti non è una novità, ma che abbia capito come valorizzare queste eredità è storia recente. E non si tratta di una volontà di valorizzazione imposta dall’alto. Con Palermo non funzionerebbe e non avrebbe nessun senso. «Accrescere sul territorio la consapevolezza, questo è stato ed è il nostro obiettivo primario», racconta Aurelio Angelini, direttore della Fondazione patrimonio Unesco in Sicilia e prosegue: «Per questo abbiamo investito tantissimo nel coinvolgimento dei bambini e ragazzi delle scuole. Dobbiamo far capire alle nuove generazioni quello che è sfuggito a quelle precedenti: i patrimoni culturali sono il futuro, anche economico, di questa regione e città».

Molti di quei ragazzi erano tra i 220mila partecipanti alla scorsa edizione di Le vie dei tesori, iniziativa che prevede cinque weekend (in ottobre) alla scoperta di un centinaio di luoghi della città spesso preclusi al pubblico. «Il centro storico di Palermo ci è stato negato per 40 anni, ora i cittadini se ne stanno riappropriando e le istituzioni pubbliche, private e della curia hanno fatto sistema per rendere tutto più facile», spiega Laura Anello, una delle ideatrici della manifestazione: «Gli ingressi costano 1 euro e si possono anche acquistare on line. All’inizio i siti coinvolti erano una decina, per l’edizione 2017 arriveremo a 120, forse di più. C’è gente che si mette in coda fin dalla sera prima. Ogni tanto ci scappa anche la rissa», racconta. Quelle code sono uno degli spettacoli più affascinanti ai quali si possa assistere. Un esempio di democrazia culturale e curiosità, di orgoglio ed entusiasmo. Di appartenenza. E poi quell’ohhh stupito entrando nella Camera delle meraviglie (incredibile esempio di decori arabi ritrovato in una casa privata), quegli occhi sgranati di fronte agli stucchi del Serpotta finalmente osservati con calma e compresi meglio grazie alle spiegazioni dei giovani volontari coinvolti, quell’incredulità un po’ angosciata scendendo le scale che conducono al rifugio antiaereo di Palazzo di città, quel «non lo sapevo» vedendo il bagno rituale ebraico, il miqveh, trovato nei sotterranei di Palazzo Marchesi e risalente a prima della cacciata degli Ebrei dalla Sicilia nel 1492. Arabi, Normanni, Ebrei, ai quali oggi si aggiungono pakistani, marocchini, tunisini, rumeni, equadoregni... Palermo è e rimane lì in mezzo al Mediterraneo e non può, non riesce, ma soprattutto non vuole negare la sua identità accogliente. Tra le altre date da fissare nella memoria che indicano la trasformazione in corso l’istituzione, nel 2013, di una Consulta delle culture eletta dai cittadini stranieri e chiamata a lavorare fianco a fianco con la giunta comunale. Giunta che nel marzo 2015 ha promosso e firmato la Carta di Palermo, un documento unico sui diritti della mobilità della persona che potrebbe far accapponare la pelle ai fautori di muri e confini a oltranza, ma che va oltre i proclami emergenziali per cercare di trovare nuove chiavi di lettura per le inevitabili migrazioni. E in fatto di letture e migrazioni Palermo ospita il Festival delle letterature migranti (dall’11 al 15 ottobre) coinvolgendo scrittori di tutto il mondo pronti a confrontarsi sul concetto di identità, sulle migrazioni fisiche e immateriali alle quali è ovviamente impossibile mettere confini.

A proposito di confini simbolici al Teatro Massimo hanno deciso di non chiudere più la cancellata che dà sugli scalini d’ingresso. «Questo è e deve essere un luogo della comunità, al di là degli spettacoli», spiega il sovrintendente Francesco Giambrone che, dal suo ufficio con vista sull’atrio del teatro, prosegue: «Se sento rumore, se sento voci giovani, se sento movimento vuol dire che va tutto bene, anzi benissimo». Il Massimo quest’anno compie 120 anni, venti dalla riapertura dopo la chiusura tra il 1974 e il 1997. Il 12 maggio le celebrazioni hanno inizio con l’esecuzione della seconda sinfonia di Mahler, la Resurrezione, quella eseguita anche vent’anni fa. Un’altra scelta simbolica che narra di una riflessione importante su come i teatri sono spesso diventati luoghi elitari perdendo un po’ il senso del loro ruolo nella società. «Per noi il Massimo deve essere un’altra cosa. Deve essere inclusivo e popolare nel senso primario del termine», spiega Giambrone: «Il teatro deve essere un luogo aperto, dove si consumano esperienze; per questo vogliamo abbattere tutte le barriere: quelle fisiche, quelle economiche, persino quelle psicologiche». Quindi cancellata aperta, nessun codice d’abbigliamento, prezzi popolari, apertura al pubblico più giovane coinvolto in varie forme, dal Coro arcobaleno composto da bambini di ogni nazionalità alle notti a teatro con i ragazzi che dormono in tende montate nel foyer. «Siamo un po’ pazzi, ma i numeri ci danno ragione. Fino a pochi anni fa la percentuale di occupazione della sala era al 54 per cento ora siamo al 75 e gli under 30 sono più del 30 per cento», conferma soddisfatto il sovrintendente. ra le mille iniziative l’opera in camion che porta la lirica nelle periferie, lo streaming delle prime, il maxi schermo accanto al teatro che, due o tre volte l’anno, permette di vedere spettacoli stando all’esterno al prezzo simbolico di 1 euro. E per l’anno di Manifesta è in fase di elaborazione una programmazione che saprà far dialogare forme d’arte molto diverse fra loro. L’obiettivo è far entrare a teatro anche le migliaia di persone che accorreranno a Palermo per l’arte contemporanea, ma si troveranno trasportate in una dimensione che di una sola forma d’arte non sa e non vuole accontentarsi.

«Qualche mese fa ho fatto da guida ai curatori di Manifesta e ho deciso di portarli dietro i muri, per far capire anche il retro di Palermo», racconta Stefania Galegati Shines artista contemporanea nata in Romagna, cresciuta artisticamente a Milano e New York e sbarcata a Palermo dieci anni fa per una mostra e, da allora, mai più ripartita. Con suo marito Darrell Shines, manager musicale newyorkese, hanno aperto, un anno e mezzo fa, il Caffè internazionale, spazio espositivo, locale, sala concerti, laboratorio culturale nel cuore del centro storico. «Non è stato semplice all’inizio. Le ostilità provenivano da più fronti, ma piano piano abbiamo cominciato a dialogare con i vicini», prosegue. Nei mesi scorsi hanno invitato ogni sabato sera un’associazione diversa a raccontare e raccontarsi: dagli artigiani agli artisti di strada, fino ai gruppi di volontariato. Una sorta di censimento delle mille anime della città. Ora l’idea è di creare dei tandem tra gli studenti di scuole diverse per far dialogare ragazzi di provenienze spesso opposte: «La scuola più multietnica e la scuola internazionale, per esempio. Abbiamo proposto a Manifesta una didattica di questo tipo. Per aprire le maglie del confronto tra i cittadini, anche quelli più giovani». Stefania racconta dei palermitani che anni fa se ne sono andati e che ora ritornano rilevando un fermento innegabile in città. Racconta anche di altri non palermitani come lei che qui hanno trovato casa. Come Carmela Dacchille, romana e architetto che, nel 2013, è arrivata qui in un momento di crisi per cercare nuovi stimoli e ha fondato le Edizioni Precarie, piccola casa editrice artigianale che letteralmente produce libri sulla carta alimentare, quella nella quale abitualmente si incarta il pesce o altri prodotti: «Questa è una città stimolante a sua insaputa. Ho scelto la carta del mercato perché è un bel materiale, con un’identità precisa, pronta ad accogliere altri disegni e altre storie. Questa carta è precaria, si può gettare via o trasformare in qualcos’altro». Un po’ come Palermo che sta trasformando la sua bellezza precaria in un modello.