I cento anni dell'Italia in rosa

Illustrazione di Luigi TestoriGiuliano De Lucagianni ScocaAdriana TrincheraRosa MaggiAndrea Grigolo

Nel 1927 Orio Vergani, cronista del Corriere, venne mandato al seguito del Giro d'Italia e ne approfittò per scoprire, e raccontare, il Belpaese in 30 anni di articoli. Le sue impressioni dell'Italia del Giro

Il primo Giro d’Italia partì il 13 maggio 1909 alla 2.53 da Milano destinazione Bologna. Dopo 397 chilometri la prima tappa fu vinta da Dario Beni, ma poco importa: perché quel giorno nacque non soltanto una corsa, ma anche una festa di popolo. Dal 5 al 28 maggio si correrà la centesima edizione della corsa rosa che ha creato eroi nazionali ma soprattutto ha permesso a tanti di conoscere davvero l’Italia. Lo racconta Orio Vergani, cronista del Corriere della Sera che nel 1927, fu spedito a seguire il Giro dal direttore, Ugo Ojetti. Lo fece non con lo spirito del giornalista sportivo ma con quello ammirato dell’italiano che conosce poco il suo Paese e coglie l’occasione di quella «grandissima ispezione stradale d’Italia» che è il Giro per scoprirlo e raccontarlo. Lo spiega, 30 anni dopo, in quest’articolo tratto da Le Vie d’Italia (la rivista Touring dell’epoca) del maggio 1957 in cui confessa essersi preparato tappe con i volumi rilegati in tela rossa: le guide Touring. ECCO IL SUO TESTO.

Era il 1927, ed era una estate precoce e caldissima e io debuttavo come suiveur al mio primo Giro d’Italia. Chi avesse guardato il Giro dall’alto avrebbe visto là sotto, sulla strada bianca, correre una grossa automobile aperta, verniciata in azzurro, seguita da una bella nuvola di polvere. In quella automobile c’ero io, vergognoso d’essere, tra tutti i suiveurs, il meno esperto di cose ciclistiche. Avevo in testa un berretto bianco, per difendermi dai colpi del sole, e davanti agli occhi grossi occhiali neri dai vetri curvi. La macchina correva veloce, il vento faceva sventolare la spolverina e i fogli del taccuino. Ogni momento perdevo la matita, ogni momento il soffio del vento minacciava di far volar lontano il mio berretto. Sul sedile accanto a me avevo una borsa da cui estraevo ogni tanto un volume rilegato in tela rossa o una carta geografica. Visto che il mio giornale mi aveva ordinato di seguire il Giro d’Italia avevo creduto opportuno mettermi in marcia portando in una borsa i volumi delle Guide del Touring e con una abbondante dotazione di carte geografiche. Che io girassi con una specie di bibliotechina di bordo aveva molto stupito i colleghi anziani, ai quali, con molta timidezza, avevo cercato di spiegare che mi sembrava utile e persino bello, e quasi – anzi – doveroso, visto che mi preparavo a girare l’Italia, di sapere dove andavo, cosa vedevo, quali valli avrei percorso, quali monti superato, quali fiumi attraversato.

 

In pratica, la consultazione delle carte geografiche e delle guide mi si rivelò subito molto difficile. Io, per una naturale trepidazione di passeggero, tenevo un occhio alla carta geografica e l’altro ai paracarri e ai vari ostacoli contro i quali pareva che la macchina dovesse andare a fracassarsi. (...) Dovetti rassegnarmi a consultare carte e guide ogni sera prima della tappa, studiando nella stanzetta d’albergo l’itinerario della corsa, e prendendo via via, nota dei castelli, dei torrenti, delle badie, dei portali gotici, dei ruderi greci e romani, delle torri medievali che avrei a mano a mano incontrato e, con molte probabilità, nemmeno visto nella babilonia della gara.

Mi sono accorto fin da allora che, come tutti gli italiani, io conoscevo pochissimo l’Italia. È ben raro che un italiano dedichi le sue vacanze a conoscere un po’ attentamente il proprio paese: quasi sempre crederà necessario conoscere prima Parigi o Siviglia, Stoccolma o il Capo Nord. Per conto mio conoscevo, per esempio, ogni cantuccio dell’Africa del Nord, ma mi era praticamente ignota la Toscana, benché ci fossi vissuto da ragazzo. Ai miei tempi i ragazzi non viaggiavano: erano rare persino le villeggiature. Chi non aveva una bicicletta doveva limitarsi ai quattro, cinque chilometri di una passeggiata fuori porta. (...) Dai dodici ai quindici ho vissuto tre anni a Viterbo, e cioè nel cuore stesso dell’Etruria: e non sono andato né a Tarquinia, né a Tuscania, né ad Orvieto. Volete che ne faccia pubblica confessione? Orvieto e Tarquinia le ho viste per esclusivo merito del Giro d’Italia, rubando alla cronaca della corsa una fermata di due minuti. Se sono andato a Recanati – cinque minuti in casa di Leopardi... – lo devo pure al Giro. Arrossisco; è merito del Giro se le prime volte ho visto Lucca, se ho visto Paestum, se ho visto Volterra, e San Gimignano, e Montecassino. Un’Italia scoperta al galoppo, incalzato dai clacson della corsa: cattedrali davanti alle quali passa fra gli applausi frenetici un corridore in fuga. Il castello di Ferrara guardato di sotto dal finestrino della macchina che sfiora la siepe di folla, la rocca di Radicofani rivelata in uno spiraglio del polverone, la reggia di Caserta salutata con la mano, la cascata delle Marmore “indovinata”, il lago di Piediluco “fiutato” nel vento turbinoso del grande carosello.

Arrivato, con il passare degli anni, aI mio trentesimo Giro d’Italia faccio un breve calcolo. Dal 1927 ad oggi ho guardato – se non mi accadeva di sonnecchiare – 120.000 chilometri di panorami a sinistra e 120.000 chilometri di panorami a destra, raggiungendo un totale di 240.000 chilometri di panorami italiani quasi tutti diversi perché ogni anno la corsa cambia quasi per intero i suoi itinerari e perché, anche quando la strada è eguale, in trent’anni infinite cose sono mutate nei suoi profili e nei suoi colori, e persino nella sua stessa popolazione. (....) È superfluo dire che la strada stessa è mutata: è mutato il suo traffico, è mutato il “fondo” stradale – il colore era bianco o giallo chiaro – le strade non penetrano più nell’interno della città ma ci costringono a conoscere la circonvallazione delle loro periferie. Gli asini e i muli si sono rarefatti e li si incontrano ormai solamente in remote valli appenniniche. Gente che vaga per i suoi affari a cavallo non se ne incontra quasi più: trent’anni fa il cavallo, nel Lazio, era molto più diffuso della bicicletta. I pastori del 1927 vestivano come quelli dei quadri romantici dell’Ottocento: oggi indossano i pantaloni di ruvida tela turchina messi di moda dagli americani. Mutamenti avvenuti con lentezza, in modo forse irrevvertibile se non facesse ogni anno questa grande ispezione stadale che è il Giro, un’ispezione che allinea ai lati della via decine di milioni di italiani come per un rapido censimento. In trent’anni – mi spiace per i cappellai – sono scomparsi i cappelli di panno o di paglia, il novantanove per cento degli italiani va a testa nuda. Lo standard va livellando il costume. (...)

Erano tempi facili, dal punto di vista di una piccola esplorazione turistica ai margini della corsa, quelli di trent’anni orsono. Dopo ogni tappa c’era un giorno di riposo: chi, dei suiveurs, ne aveva voglia, in quella giornata di riposo poteva visitare un museo, una vecchia chiesa, un antico castello. (...) Era per me un punto d’onore convincere qualche altro suiveurs a sostare, o almeno a dare di sfuggita un’occhiata a qualcosa di bello che da secoli e secoli pareva ci aspettasse a lato della via. Era spesso una fatica erculea convincere un collega che, per almeno un momento, guardare le Torri di San Giminiano era preferibile al guardare le gambe di Girardengo o di Belloni. Pareva che, con quelle proposte io tradissi la magia muscolare dello sport.

La mia, per molti anni è sembrata l’opera di un sottile corruttore. Ma sono riuscito a imprese miracolose: a far visitare a qualche famoso cronista sportivo il Museo di Udine, a trascinarlo a vedere i mosaici di Aquileia: e a precedere con me di qualche minuto la corsa per visitare lo casa natale di Giosué Carducci a Pietrasanta, o la tomba di Galla Placidia a Ravenna.
Di anno in anno crescendo – per così dire, la mia autorità – ho ottenuto che le mie “prede” non sapessero come sfuggire alle mie proposte, fermarsi cinque minuti nel Battistero di Pisa o nell’anfiteatro romano di Minturno. Adesso, se riesco ad agguantarli, non mi dicono di no, per rispetto ai miei capelli grigi. Talvolta guido delle piccole troupes a visitare in pochi minuti un castello della Valle d’Aosta, o il Palazzo dei Papi a Viterbo. Ho imposto, se si passa in Umbria, la fermata alle Fonti del Clitunno. Forse mi considerano un picchiatello, ma ormai non hanno coraggio di contraddirmi. Qualche volta sono addirittura gli autisti della carovana che vengono a chiedermi cosa vale la pena di guardare. (...)

Più che un suiveur sono diventato con gli anni, il Cicerone, la ”guida non autorizzata” del Giro, e di biciclette e di ciclisti m’intendo sempre meno: ma riesco a sapere sempre qualcosa di più di questa nostra incantevole patria che ho conosciuto proprio per merito del Giro, un po’ a tozzi e bocconi. Inizialmente come un interminabile mosaico di irregolarissimi frammenti, che negli anni, con la memoria (o con la nostalgia), mi hanno consentito di riordinare in una visione di cui devo essere grato proprio al Giro d’ltalia, anche se i suoi itinerari si sono fatti a scossoni, a rimbalzi, a galoppi precipitosi. È, naturalmente, una visione in molte parti assai confusa, che di anno in anno mi prometto di riordinare. Avrò i capelli bianchi, quando potrò intraprendere un “giro” come lo intendo io, un giro solitario e silenzioso per il quale prendo gli appunti fin dal primo capitombolo di Moncalieri.

Illustrazioni di Luigi Testori