Sudafrica. Ivory Route patrimonio d'umanità

Francesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco Tomasinelli

Abbiamo attraversato la provincia del Limpopo, ospiti delle comunità locali che conservano arti, tradizioni e... la natura

Dici Africa e pensi a silhouette di giraffe contro il sole che tramonta, a barriti di elefanti, a leoni che criniera al vento incedono lentamente nella savana. Non pensi alla gente. Non subito, almeno. Anche quando arrivi in Sudafrica, prendi una macchina e parti subito verso il Kruger, eden in Terra, mirabolante album dove incollare tutte quelle figurine che da bambino scambiavi con i compagni di scuola. «L’ippopotamo ce l’ho, il rinoceronte no, me lo dai?». Questo viaggio mi ha insegnato che la ricchezza africana sta anche altrove: l’ho capito là dove nessun turista si ferma mai, tra Johannesburg e il grande parco, là dove nessuno penserebbe che ci sia qualcosa da vedere. L’ho capito negli occhi delle donne che ho incontrato, nelle mani che ho visto lavorare, nelle voci dei ragazzi, nella voglia di guardare sorridendo verso un futuro sempre e comunque incerto.  

Giorno 1. Paolo Caroli guida spedito sull’autostrada verso Louis Trichardt. Mentre fuori dal finestrino l’Africa prende forma nei suoi colori e nella sua polvere, racconta di anni passati in Sudafrica, di un Paese che continua a cambiare e che deve ancora trovare la sua strada. Nelle parole ci sono speranze, timori, battaglie. Il suo è un punto di vista privilegiato: da anni Paolo porta avanti progetti per il Cesvi, ong di Bergamo che lavora in tutto il mondo. E io sono qui per vedere da vicino uno di questi, nel Limpopo, la provincia più a nord, al confine con lo Zimbabwe e il Mozambico. «Quello dell’African Ivory Route è un progetto ambizioso» mi spiega. «Lo scopo è rendere protagoniste le comunità locali, il cui benessere troppo spesso passa in secondo piano rispetto agli obiettivi di conservazione delle risorse naturali e di sviluppo turistico. Lavoriamo per trovare un equilibrio sostenibile, nel senso che possa essere sostenuto da tutti». Frasi che continuano a rimbalzarmi in testa mentre la strada si fa sempre più corrugata, perdendosi tra foreste di pini e piantagioni di tè. Perché questa è una delle titaniche sfide dell’Africa. Una bilancia che deve trovare un modo perché i due piatti inizino a pesare uguale. Il primo “testimonial” dell’African Ivory Route – ovvero la strada dell’avorio, per via di antichi commerci che passavano su queste rotte – si chiama Nelson e potrebbe affascinarti per ore con le storie di spiriti e antenati, di mezzi uomini e animali fantastici. Una di quelle figure da “racconto attorno al fuoco” che costituirebbe da sola un motivo per venire nel Limpopo. Lo incontriamo a Fundudzi, dove è situato il primo dei nove piccoli “campi” che formano il cuore del progetto – campi gestiti in tutto e per tutto dalle comunità locali, che il Cesvi ha aiutato a formare grazie a fondi dell’Unione europea. «Qui le tradizioni sono ancora vive» racconta Nelson tra un aneddoto e l’altro. «E non sono certo fabbricate a uso e consumo dei turisti. Stasera lo vedrai». In effetti quello che succede sul far della sera mi rimarrà impresso per sempre come una delle più belle esperienze mai vissute in Africa. Perché la danza di Maboho, Mabuli, Ravhura e di tutte le altre donne del Takuwani Dancing Group è un concentrato di intensità e di armonia: sotto un grande albero, con i raggi del sole che filtrano tra i rami, giovani e anziane ballano al ritmo dei tamburi, i seni nudi, le caviglie adorne di bracciali, le mani di una attaccate ai gomiti dell’altra, a imitare un serpente che striscia. Mi vengono ancora i brividi, a pensarci. Si parla tanto di turismo esperienziale: questa è un’esperienza che va oltre qualsiasi altra. Il privilegio di essere soli, di assistere a uno spettacolo antico quanto l’uomo, di capire che tutto potrebbe svolgersi mille anni fa e essere tutto uguale. Tra l’altro, il nostro modesto contributo economico aiuterà le donne a far sì che altri possano godere la nostra stessa esperienza: anche questo fa parte di un unico progetto.  

Giorno 2. A Mtomeni incontriamo un altro testimonial e un’altra faccia dell’African Ivory Route. Lui si chiama Edwin e fa la guida naturalistica: Mtomeni è ai margini del Kruger, gli animali non conoscono distinzioni tra parco e riserva, a colazione vediamo un branco di licaoni che si mette a giocare proprio davanti alle nostre tende. Edwin sa riconoscere ogni volatile della savana, anzi: sa imitare tutte le specie. «Aspetta, adesso ti faccio l’averla di macchia testagrigia» e si mette a fare un verso talmente uguale a quello vero che l’averla subito risponde. Il bello è che Edwin non possiede un binocolo o un manuale di riconoscimento: lui è un uomo del bush, tutto quello che sa lo deve ai suoi occhi e alle sue orecchie. Siamo a piedi, mentre Edwin indica, spiega, racconta: a Mtomeni il safari lo si fa anche così, protetti soltanto dall’esperienza della guida e dal suo fucile. Ed è un’altra esperienza bellissima: perché osservare un branco di bufali senza lo schermo di lamiera dell’auto ti riporta indietro di millenni. Tu, piccolo insignificante essere indifeso, come potresti sopravvivere da solo nella savana? L’essere indifeso però è capace di altro, quando vuole: per esempio di costruire confortevoli tende su palafitte, munite di pannelli solari che permettono pure di ricaricare “in camera” lo smartphone attraverso prese usb. «Nei campi dell’African Ivory Route abbiamo fatto molti progressi quanto a ecologia e sostenibilità» spiega Aurora Oggioni, che con Paolo coordina il progetto Cesvi. E se il campo di Mtomeni è quello più all’avanguardia, anche a Modjadji – dove i bungalow sono all’ombra di una straordinaria foresta di cicadi giganti – si ricicla e si usano lampade a luce solare. Mi sembra una nuova musica, per l’Africa. 

Giorno 3. Un altro aspetto che mi sorprende, di questo viaggio nel Limpopo, è la possibilità di fare cose. Spesso si guarda e basta, durante un viaggio. Qui si fa. Con le donne danzanti abbiamo mangiato polenta e verdure nelle loro capanne. Con Edwin abbiamo camminato nella savana. Oggi con Florence e le sue compagne produciamo un batik: nel senso che lo facciamo noi, sapientemente guidati dalle loro mani, così più veloci ed esperte delle nostre. Ed è un’immensa soddisfazione vedere la cera calda che si rapprende, il colore che cambia con la bollitura, il pezzo di stoffa che diventa un oggetto. Soprattutto farlo con loro, ridendo, scherzando, vivendo un momento della loro quotidianità. Siamo al villaggio di Elim, terra di artisti e artigiani, se è vero che alle donne della Twananani Textiles – «siamo nate nel 1983, lavorando insieme volevamo aiutarci l’un l’altra e aiutare le nostre famiglie, specialmente negli anni dell’apartheid» – fanno seguito una chiacchiera con Patrick, scultore-filosofo che potrebbe vivere benissimo a Soho; un concerto con Lucky Ntimani, musicista che insegna ai ragazzini come suonare uno strumento, togliendoli dalla strada; una lezione di ceramica con Flora, che segue la tradizione di famiglia fabbricando vasi di tutte le fogge. Qualcuno l’ha chiamata la “Ribola Art Route”, tanti sono gli artisti di questi villaggi, mix di etnie Venda, Tsonga e Shangaan che coabitano da secoli pur avendo tradizioni, lingue e culture diverse. Un melting pot ante tempore che può insegnare qualcosa anche a noi. 

Giorno 4. Tanti pensieri in testa: lo stupore e il piacere per la consapevolezza della gente, che inizia a essere più conscia delle proprie ricchezze; il desiderio che altri turisti come me possano vivere le stesse esperienze, così forti, così arricchenti. Arriviamo a Baleni, altro campo dell’African Ivory Route, con le luci del tramonto. Davanti a noi si profila una scena che ci fa tornare indietro nel tempo. Tra radi alberi di mopane, vicino a una sacra fonte solforosa, Eloise, Maria, Rosa e Lucia raschiano lentamente le rocce saline. Poi mettono il terriccio in grandi imbuti di fango e di foglie, filtrano, raccolgono l’acqua densa di sale, la mettono in padelle sgangherate che bollono sul fuoco. Quel che rimane è sale purissimo. C’è una sorta di atavica bellezza, di candore primigenio in una tradizione che si protrae uguale a se stessa dalla notte dei tempi. Una sensazione potente: è come se i gesti non fossero mai cambiati e non potessero cambiare mai. Le donne dicono che lo spirito della terra le ha sempre protette. Anche quando Maria è andata a Torino per fare da testimonial del suo sale, presidio Slow Food, a Terra Madre. Le chiedo quale sia il suo più grande desiderio. «Far conoscere il sale nero di Baleni a tutto il mondo».

Francesco Tomasinelli