di Viviano Domenici
Un documento di 3.300 anni fa con il sigillo della regina ittita stabilisce la difesa dei rifugiati politici
Arrancavo sulla sassaia che copre il terreno di Hattusa, la capitale del potente antico popolo degli Ittiti, vicina al villaggio di Bogakoy, 150 chilometri a est di Ankara, in Turchia. Finché mi trovai davanti a un grosso cubo di pietra verde (nella foto in basso; al centro, l’ingresso del Gran Tempio) levigato come una giada che brillava nel labirinto di massi grigi del Gran Tempio in rovina. Accarezzai la superficie liscia di quel gioiello come se lo conoscessi da tempo. Invece era la prima volta che lo vedevo, ma avevo spesso letto la sua incerta storia. Una tradizione racconta che fu inviato in dono dal faraone Ramesse II ai regnanti Ittiti attorno al 1259 avanti Cristo; un’altra dice che fu la regina Nefertiti a inviarla alla sua omologa ittita Pudu-Khepa, moglie del re Hattusili III.
E questi racconti rimandano a un matrimonio (storicamente certo) tra Ramesse e una delle figlie di Hattusili, celebrato per sancire un trattato di pace tra i due popoli, il cui testo è noto grazie alle copie ritrovate incise sia sui monumenti egizi sia su tavolette d’argilla rinvenute negli archivi ittiti. Due versioni molto simili tratte da un originale inciso in accadico, la lingua diplomatica dell’epoca, su tavolette d’argento siglate con i sigilli dei regnanti contraenti. Si tratta del più antico trattato di pace esistente, e nello stesso tempo di un modello di equilibrio diplomatico, tanto che una copia è esposta nel palazzo delle Nazioni Unite, a New York.
Il documento è articolato in diciotto punti, sei dei quali relativi al tema dell’estradizione di persone fuggite per motivi politici e rifugiatesi nell’altro Paese firmatario. Gli ultimi due punti prevedono la non punibilità degli estradati e paiono in contrasto con lo scopo stesso dell’estradizione come la intendiamo oggi, ma dovevano avere un significato essenzialmente politico tendente a riportare in patria persone che, rimanendo all’estero, potevano fomentare rivolte e complotti; evidentemente si riteneva di poterle controllare meglio in patria, anche se libere. Ecco il brano dell’antico testo che impegna reciprocamente – a parti invertite – i due Paesi: «Se un uomo, o due o tre, si rifugiano presso il sovrano d’Egitto [questi] li arresterà e li farà riportare dal re di Hatti. Ma il re di Hatti non gli rimprovererà la sua colpa; la sua casa, le sue donne, i suoi bambini non saranno annientati; non lo si ucciderà, non lo si ferirà negli occhi, nelle orecchie, nella bocca, nelle gambe».
Una clausola di grande lungimiranza e inaspettata attenzione per i diritti umani, che gli storici ritengono sia stata inserita nel trattato per volere della regina ittita Pudu-Khepa, il cui sigillo è infatti presente sulle tavolette d’argento come quelli di Ramesse II e Hattusili III. Questo accadeva circa 3300 anni fa.