di Pietrangelo Buttafuoco | Fotografie di Clara Vannucci
Riflessioni di uno scrittore siciliano doc su come cambia il mitico capolinea del Grand Tour. Tra fascino, bellezza e paccottiglia
La via Valeria. La consolare tracciata dai Romani, nel tratto che riguarda oggi Taormina, è il corso Umberto I. Prende possesso dell’orizzonte blu e si procura, tra i tavoli dei caffè, con un solitario cannocchiale a gettoni, l’affaccio nello Ionio (dove un tempo sguazzavano i Ciclopi, oggi le barche in transito verso il porto di Riposto).
La strada fa su e giù tra i frastagli di rocche e incontra ancora il mare. Prende avvio da Marsa Allah, il porto di Dio, costeggia a Fiumefreddo il Castello degli Schiavi che vide morire con la dinamite Apollonia, strappata all’amore di Michael Corleone nel Padrino, e va incontro al raspo di cenere bianca dell’Etna. Un cassaro corto, il corso. Da un lato, a sud, c’è Porta Catania; dall’altro – in direzione del continente – Porta Messina, giusta destinazione di uno chic inesorabile ormai calpestato da bipedi tatuati in pantaloni a pinocchietto.
Gli alberghi di Taormina, fino agli anni ’50 del secolo scorso, a dispetto della villeggiatura dell’umanità ordinaria in cerca di solleone aprono a ottobre e chiudono ad aprile. La famiglia dei La Floresta, e quella dei Lo Turco, ex proprietari dell’Hotel Timeo – 25mila metri quadri di giardino, tra le vestigia del teatro Greco – bandiscono da quell’eden l’inaudita volgarità di piscina e aria condizionata. Quella stessa volgarità che – da ogni angolo di Sicilia, giusto per bruciare un pieno di carburante – oggi fa dire: «Andiamo a prendere il caffè a Taormina e torniamo a casa?»; quella stessa del mordi e fuggi ed è quella che s’aggrappa alla pigna: uno strano feticcio in ceramica onnipresente nelle vetrine e che trasforma i negozi dello shopping facoltoso in bancarelle per fagottari. Tutta una massa che passa, se ne va e – grazie a Dio – non sfregia l’intatta bellezza della città.
L’eccezione all’incombere dell’estate se la concede il Miramare quando da maggio a ottobre, ma è il 1967, accoglie come ospite Salvo Randone concentrato la notte a dissipare se stesso al tavolo da gioco mentre, il giorno, s’impegna a studiare la parte del vecchio Fedor Pàvlovic.
Nell’autunno dell’anno dopo, con I Fratelli Karamazov – lo sceneggiato Rai di Sandro Bolchi – Randone tiene incollati tutti davanti alla tivù ma Taormina, dove oggi non c’è un cinema, è la vetrina del cinema internazionale.
Nella città del Mocambo – il bar di Robertino fondato nel 1950 da Carmelo Fichera – arriva Anita Ekberg. Piazza San Domenico de Guzmàn gode dell’apparizione dell’Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany. Alle sue costole c’è l’Anthony Perkins di Psyco. Lei è sulle tracce di Truman Capote, rapito da questo pezzo di mondo – questo “bouquet degno di una regina” – dove un qualunque Andrè Gide, un altro viandante, è solo un vecchio col tabarro. Perkins, invece, frastornato dalle zaffate di zagara, si ritaglia un ruolo da comparsa. Nell’archivio di Mirko Malambri – enciclopedia di una felicità taorminese tutta per immagini – le due star sono le sexual personae di un’età comunque degna di replicare nell’epoca della riproducibilità tecnica gli acquarelli di Jean Pierre Houel – memoria del Gran Tour – oggi custoditi all’Ermitage.
Ciò che è proibito a Capri è lecito a Taormina, così un tempo. Ma il rudere dell’hotel di Castellammare lungo via Pirandello, già consolare Valeria – souvenir dei terribili bombardamenti Usa nella seconda guerra mondiale – certifica l’incapacità di darsi regole nella riedificazione. L’agognato casinò – meta di giocatori cosmopoliti – non ci sarà mai. Ciò che purtroppo c’è a Taormina, non ci sarà mai per fortuna a Capri, o a Cortina, o in qualunque altra città della bellezza d’arte e di natura. Ecco il villaggio le Rocce. Visto dal mare è uno spettrale gruviera di cemento. Arrivandoci a piedi, dalla città, è il più bel giardino di Sicilia fatto sporco, malsano e pieno di zecche.
Ancora negli anni ’60, le Rocce – la cui inaugurazione mobilita la Settimana Incom – è un night club ed è giusto il luogo dove Antonio Presti, mecenate, già capo della fondazione Fiumara d’Arte, s’adopera per restituirlo alla bellezza dopo l’incuria di mezzo secolo.
Quaranta casette – souvenir della terribile inerzia chiamata burocrazia regionale – nel frattempo quaranta lerci relitti a picco sulla baia di Mazzarò, rifugi di extracomunitari nelle notti d’inverno a conferma delle cose che solo in Sicilia – dove coabitano macchia mediterranea e macerie – possono succedere.
Cose inimmaginabili su un costone delle Dolomiti e però normali in questa terra se Villa Deliella, a Palermo – un gioiello del liberty disegnato da Ernesto Basile, con arredi Ducrot – nel 1956, con Vito Ciancimino sindaco, viene demolita in una sola notte per averne in cambio il posteggio di piazza Croci.
Il mondo passa da Taormina. Nel 1946 – in occasione di un congresso del Partito Liberale – un giovanissimo Andrea Camilleri conosce Vitaliano Brancati. Il futuro autore de Il Birraio di Preston passa per salutare zio Carmelo presente tra i congressisti al seguito di Manlio Brosio, futuro segretario della Nato, e con loro – ospite di donna Carmela Lo Turco, al Miramare – c’è il capo-maschio degli ingravidabalconi: Brancati che se ne sta sottobraccio all’incantevole Anna Proclemer perché Taormina è tappa di una vertigine che comunque disperde ogni stupida cartolina con tanto di coppola e carretto.
Paccottiglia che esiste solo nelle botole del luogo comune, quella degli industriali del ficodindia. L’agenzia di comunicazione per il G7 – il summit del 25 e 26 maggio che ha visto l’Italia alla presidenza – escogita una clip con tanto di stereotipo agreste. Veste un modello come mai un siciliano si sognerebbe di addobbarsi.
La verità intima di questa città, il suo genius loci, è in quel che Wolfgang Goethe, ebbro tra le pietre del teatro Greco – da un lato la neve dell’Etna, dall’altro l’alito dello Ionio, caldo e bagnato di luce al sud di ogni sud – fa vivere nell’esecuzione dell’Egmont. L’opera che con lo spartito di Beethoven, dal golfo mistico, innerva sul silenzio la pioggia di pura malia di parole e suono come solo Carmelo Bene – è il settembre del 1983, sul podio c’è Roberto Abbado – sa far gocciare.
C’è la stella dei teosofi a Taormina. Al parco Colonna, duca di Cesarò, le casette magiche fatte costruire da Florence Trevelyan non sono bizzarrie del decor esotico, bensì edifici destinati alla meditazione. E nelle notti d’equinozio, nei gradoni, si raduna come tra i menhir il mistero. È quello che negli anni del beat attira a Taormina gli hippy, tutti nel solco di Krishnamurti, giunto nel 1912.
C’è il cane con la fiaccola in bocca a Taormina. È il cane di Dio, è il segnacolo dei domenicani, lo stemma che segnala l’ingresso all’hotel
S. Domenico, un tempo il monastero fondato da Damiano Rosso di Cerami.
Il mito, più che la cronaca, veste Taormina. La processione di sole donne delle Varette, nella notte del Venerdì Santo, asseconda l’antico culto di Iside mai sradicato e c’è da dire che Essere e Tempo, in questa città di sfacciato fascino, trasfigurano ogni accadimento: San Pancrazio, il santo nero patrono della città ionica, si prende le mura di Giove Serapide il cui tempio sveglia i culti dei padri mentre la torre cubica di palazzo Corvaja, costruita nell’anno Mille dai picciotti del Profeta, replica la santa Kaaba di Mecca.
Tutto ciò nella cerca di luce perché perfino l’Isola Bella, ai piedi della montagna, si restituisce a ciò che non s’è mai disperso in questo lembo di Siqilliah: passeggiare sull’acqua e raccogliere i riflessi di luna come fossero bacche, oppure perle, e farne dono. All’Altissimo.