L’altro Salento

Tour in Puglia tra Ceglie Messapica, San Vito dei Normanni e Carovigno tra segreti e sapori del Nord del Sud

Si sa, in pubblicità il nome è tutto o almeno un buon inizio. Così in Puglia si sa che la parola Salento “tira”, esercita un’irresistibile attrazione turistica, un grumo di belle sensazioni, fa venire in mente il sole, la foresta di ulivi, il mare turchese, i borghi bianchi di calce, le masserie, i sapori, la pizzica...

Insomma Salento uguale vacanza ideale, viaggio completo.

Ma questa moda che trasforma ogni agosto il sud della regione in un grande vacanzificio di massa rischia di soccombere, sotto il peso del suo stesso successo. La presenza e i progetti di un Flavio Briatore sull’area non sono forse un segnale più che evidente di questo fenomeno? E allora che fare?

Una buona alternativa è restare sì nell’area, ma spostandosi più a nord per provare una zona relativamente “vergine” della Puglia ma che ha le sue belle carte da giocare sul tavolo dell’offerta turistica.

Stiamo parlando del triangolo d’oro per quella fortunata miscela di ambiente, sapori, cultura, storia, paesaggio e ovviamente mare che ha come vertici i paesi di Ceglie Messapica, San Vito dei Normanni e Carovigno, un’area ribattezzata, per cogliere l'onda, “alto Salento”.

Siamo in realtà parecchio più a nord del Salento più famoso e frequentato, subito sotto la più blasonata (ma anche troppo “turisticizzata”) Ostuni e sopra a Brindisi.
Il nostro tour alla scoperta di questo Nord del Sud della Puglia comincia da Ceglie. I dati parlano chiaro: 20mila abitanti e 123 indirizzi gourmet. Qui a fare da attrattori sono il gusto, i sapori, il cibo. E non a caso proprio nel cuore antico del borgo che porta il nome degli antichi Messapi, storicamente sempre in conflitto con la vicina Ostuni per il controllo dei pascoli, in un ex convento domenicano si trova la Med Cooking school, l’unica succursale italiana della scuola internazionale di cucina Alma che ha sede nel palazzo ducale di Colorno, a Parma.
A dirigere i ragazzi e le aspiranti chef di domani è una donna, la giovane Antonella Ricci, già una stella Michelin nel suo ristorante Al Fornello. Qui abbiamo assaggiato formidabili piatti locali e ci siamo cimentati con le mani in pasta nella realizzazione dei taralli e del “biscotto cegliese” (senza farina e con le mandorle). Passeggiando poi tra i vicoli, in piazza Ognissanti, dove l’ex direttore sportivo della Ferrari Cesare Fiorio ha aperto un b&b, si staglia il castello, costruito nel ‘700 dal duca Fabrizio Sanseverino (nobile napoletano che portò qui sia i frati sia l’istruzione), gli orti urbani ricavati tra le antiche mura, abbiamo scoperto le ponderose opere di Pietro Gatti, fecondo poeta dialettale e abbiamo visitato il Maac, un piccolo quanto ricco museo che conserva reperti archeologici del periodo messapico (VI-III sec. a. C.) tra cui le caratteristiche trozzelle, anfore con decorazioni circolari, ma anche opere di artisti contemporanei tra cui Emilio Notte tardo futurista.

Prima di lasciare Ceglie visitiamo, nella periferia, le grotte di Montevicoli. Una mini Castellana, una sessantina di metri di grotte superficiali illuminate, percorribili e ricche di stalattiti.
Imperdibile infine una cena da Cibus, tempio della gola raccomandato da tutte le guide, da Slow Food al Gambero Rosso. Sotto le volte di un antico convento, Lillino Silibello e la moglie Angela Amico ti accolgono in un ristorante che è anche fonte di conoscenze gastronomiche (per non parlare dei formaggi, invecchiati anche per molti anni).
Una alternativa street food? In piazza Plebiscito da Zanghett, c'è il “panino cegliese”, una bomba di sapori inaspettata quanto saporita: mortadella, capperi, provolone e tonno. Provare per credere.
Notte riposante tra gli ulivi e i boschi che circondano la masseria Casina Vitale appena fuori Ceglie e si riparte per Carovigno dopo una colazione degna di un pranzo di nozze.
Appena fuori dal paese, meta di processioni e di antichi cammini religiosi il santuario del Belvedere, sulle fondamenta di un monastero basiliano, conserva una cripta scavata a fondo nella roccia e affreschi parietali.

Da lì al mare è un passo. E non è un mare qualsiasi. Nel territorio si trova Torre Guaceto, vasta riserva naturale e area marina protetta (in nome della sostenibilità qui la pesca è concessa solo ad alcuni pescherecci una volta alla settimana con il risultato che le reti si riempiono tre volte di più della media). La riserva è tutta intorno alla torre aragonese a tronco di piramide che fa parte di una catena di torri di avvistamento anti saraceni. D’estate l’accesso a un mare dai colori caraibici è limitato ad alcune spiagge (come Penna Grossa) e solo a piedi o in bici lungo percorsi segnalati. Altre calette sono interdette per proteggere fauna e flora. Poco lontano, sempre in riva al mare, si trova un centro di recupero per tartarughe. Nel parco si produce anche il pomodoro Fiaschetto, presidio Slow food, e l’olio bio extravergine ricavato dagli ulivi secolari (i patriarchi) o millenari come l’ulivo del crocifisso (ne trovarono uno nell’incavo, lasciato dai sopravvissuti a un naufragio) venduto con l’etichetta “Oro del parco”.
Dopo una visita alla torre di S. Sabina a pianta stellare e detta anche “a cappello di prete”, con i quattro spigoli orientati sui punti cardinali, e una sosta gastronomica a base di pesce da Michele, al ristorante Miramare, affrontiamo la collina su cui sorge il borgo di Carovigno, anch’esso di origine messapica, stretto intorno a una poderosa chiesa, la Parrocchiale, con un grande rosone vetrato finito, a forza di rifacimenti, sul lato lungo dell’edificio. Da non perdere è il forno a legna Lu Scattusu, aperto da 500 anni, proprio sotto la torre dove Giovanna, ultima discendente di quattro generazioni di fornai, sforna taralli, friselle e pane caldo a getto continuo.

Concludiamo la visita tra le esibizioni dei rinomati sbandieratori di Carovigno, nello spettacolare castello Dentice di Frasso a forma triangolare, simbolo della perfezione, perso al gioco dall'ultimo erede nel 1961 (43 milioni di vecchie lire) e ora restaurato e di proprietà del Comune, famoso anche per aver ospitato, oltre a Guglielmo Marconi e Ruggero Leoncavallo, il re Vittorio Emanuele III durante la vergognosa fuga verso Brindisi dopo l’8 settembre del 1943 (che passò, ironia della sorte, sotto lo stemma di famiglia che recita «Nulla palma sine pugna», ossia “nessuna gloria senza combattere”.

Il vertice più a sud di questo triangolo delle mangiate è San Vito dei Normanni (ma una volta chiamato degli Schiavoni per la presenza di una antica colonia di slavi). Sperimentiamo i sapori tipici di questo entroterra dell’alto Salento nell’agriturismo Calemone, o nell’azienda agricola Le terre nell’oasi, (qui si produce il vino rosso Susumaniello, “il nero di Indiana Jones” per Gianni Mura, qui si coltivano il cece rosso e quello nero, il pomodoro salsato e quello giallo, il suo colore originale) poi ci inoltriamo nella ricca e cultura gastronomica dell’area nella sede del locale Slow Food appena inaugurata. Infine ci immergiamo letteralmente, in visita guidata, nelle cavità del tufo dove si trova la chiesa rupestre di S. Biagio. Sulle pareti e i soffitti una fantastica serie di affreschi (alcuni ancora ben conservati) della fine del 1100: scene della vita di Cristo ed episodi della vita di San Biagio.

È ora di mettersi un po’ eleganti. Siamo attesi al palazzo Dentice di Frasso nel centro di San Vito dei Normanni. Qui il ramo della famiglia risiede ancora in questo splendido palazzo affacciato sulla piazza Leonardo Leo (il musicista barocco autore degli “stacchetti” musicali utilizzati nello “storico” intervallo tv degli anni Sessanta).

Imparentati con la famiglia imperiale viennese i principi ci mostrano pazienti le numerose stanze e i saloni, come fanno regolarmente, aprendo il castello e il giardino (dove fioriscono rigogliosi esemplari della fitolacca, pianta officinale dei nativi americani) alle visite e ospitano set cinematografici (sono state girate scene nel 2015 di Latin Lover, di Cristina Comencini).

Salutati gli augusti ospiti, passeggiamo fino alla ex Fadda, (donato dall’ammiraglio Renato Fadda) un vecchio stabilimento enologico ora attivo centro sociale con laboratori di danza, musica, foto e scuole di artigianato (liuteria, sartoria, restauro mobili) e un arioso ristorante allestito dalla designer riminese Sara Mondaini, circondato da un vasto orto aromatico. I camerieri sono persone affette dalla sindrome down e l’arredamento è tutto realizzato con mobili, tavoli e sedie trouvée che sono anche in vendita.
Lungo la strada tutti i portoni e le porte finestre delle case del centro di SanVito sono protette da una cortina di cannucce, le rezze, dipinte o illustrate di graffiti dai soggetti più vari. Per tre giorni, dal 13 al 14 agosto prossimo, si svolgerà nelle strade di San Vito la Rezzica che unirà questa forma di street art con la pizzica. Un altro modo per collegarsi con le attrazioni più apprezzate del Salento. Quello del sud.

Fotografie di Lucrezia Argentiero