Star trekking. La prima ferrata non si scorda mai...

Alpinismo per principianti: dall’ascensione sulle cortinesi Tofane alle Torri del Vajolet, dove scopri che il difficile non è salire, ma scendere

Tu guardi da sotto, vedi il percorso che ti aspetta, e dici: «È impossibile». Tutte le volte è la stessa storia. La parete appare con tutta evidenza verticale. La strada che ti aspetta, è anch'essa verticale. O peggio ancora orizzontale. Di appigli seri non ci sono evidenti tracce. Eppure la cartina è chiara e non lascia dubbi: dovrai passare da lì. Ogni volta pensi: non ce la farò mai. E invece ce la fai. Perché le ferrate sono fatte così. Da lontano ti respingono. Poi man mano che ti avvicini ti accolgono con gioia, ti incoraggiano. Ti dicono: stai tranquillo che non succede niente. E tu ti scopri grande scalatore.
La prima ferrata non si scorda mai. Eravamo dalle parti di Cortina d’Ampezzo. Sopra il Falzarego. Marcia di avvicinamento verso la Tofana di Rozes, salita lungo la galleria elicoidale del Castelletto per portarci in quota e poi la ferrata Lipella. Non metteva paura la ferrata Lipella, ma non era proprio la più adatta a saggiare coraggio e abilità di un neofita. Ma Salva (l’uomo delle mie montagne) mostrava sicurezza, per sé (ovviamente) ma anche per me. Affrontai il periglio e andò benissimo, con l’entusiasmo a mille e l’appuntamento  per più avanzate prove di alpinismo.
La ferrata è una cosa meravigliosa. Lo posso dire adesso che ne ho affrontate tante e che sono vivo. Io non ho memoria e quindi non vi so dire molti nomi di quelle che ho superato con grande gioia e sicurezza. Però ne ricordo una che mi è talmente piaciuta che l’ho ripetuta varie volte, quella delle Bocchette sul Brenta. È una lunga passeggiata, sempre su roccia, spesso su cenge a strapiombo, a volte affrontando passaggi orizzontali senza alcuno appiglio (sono facili ma danno i brividi: bisogna stendersi quasi in orizzontale puntando i piedi sulla roccia e facendo opposizione con le mani attaccate al cavo) oppure pareti lisce verticali che si superano anche con l’aiuto di scalette di ferro. Tutti quelli che si cimentano nelle ferrate lo fanno attrezzati: casco, imbragatura che ti percorre tutto il corpo e che si conclude in un dissipatore e in un moschettone, anzi, un doppio moschettone. Il doppio moschettone è il motivo per il quale il rischio di precipitare è da escludere. Lungo il percorso di tutta la ferrata, c’è un cavo di acciaio ancorato circa ogni metro alla parete. I due moschettoni si agganciano al cavo.

Se scivolate fate un piccolo volo nel vuoto, ma i due moschettoni vi tengono attaccati alla parete. E il dissipatore fa in modo che l’impatto sia attenuato. D’accordo, non è divertente, ma è rarissimo. Per dire: a me non è mai successo. E continuo a essere un vero dilettante. Perché due moschettoni? Domanda legittima. Perché quando i due moschettoni, scorrendo sul cavo di acciaio, incontrano l’ancoraggio non possono proseguire e allora se ne stacca uno e lo si attacca al cavo dopo l’ancoraggio e poi si fa la stessa cosa col secondo moschettone. Se avete capito va bene, altrimenti pazienza.
La ferrata è una grande cosa perché fa sentire tutti Cesare Maestri. Sulla ferrata si sale e si scende con le proprie braccia e, soprattutto, con le proprie gambe. E quindi si è alpinisti a tutti gli effetti. Io non posso giurare di aver fatto sempre così. Ma ci ho provato. Sia sulla strada degli Alpini, dalle parti del rifugio Carducci, sia sulla ferrata Santner, dalle parti del Catinaccio.
E ho avuto anche la prova che non ero poi tanto male quando sono arrivato sotto le Torri del Vajolet e il mio mentore, Salva, disse: «Andiamo». Pazzo lui ma pazzo anche io perché non si trattava di ferrata ma di scalata e si trattava di affrontare qualche passaggio di quarto grado. E proprio su un passaggio di quarto io mi «incrodai», cioè mi trovai nella imbarazzante situazione di non essere capace di andare né avanti né indietro.
Ma lì Salva rivelò il suo genio. Con qualche esercizio di respirazione mi fece uscire, con le mie sole forze, da quell’imbuto maledetto e arrivai in cima. Arrivare in cima a una Torre del Vajolet vuol dire raggiungere uno spiazzetto di circa due metri quadrati, ma il bello doveva ancora cominciare. Non solo non ero mai salito su una Torre del Vajolet ma soprattutto non ne ero mai disceso, impresa molto più impegnativa. Scendere a corda doppia gettandosi con la faccia che guarda la parete e alle spalle il vuoto non è pericoloso, ma pauroso tanto. E se ti capita di farlo durante una grandinata, allora sì, diventa anche un po’ pericoloso. Mi calavo per tiri successivi di quaranta metri fiducioso del fatto che Salva mi aveva detto che alla fine dei quaranta metri avrei trovato un terrazzino. «E se non trovo il terrazzino?» chiedevo a Salva. E lui: «Lo trovi, lo trovi».
Lo trovavo, alla fine, ma attribuivo il fenomeno alla esistenza di Dio. Raggiunsi non so come il rifugio sottostante. Fui accolto da un grande applauso della gente che aveva seguito al caldo la mia avventura. Sono soddisfazioni.