di Giuseppe Scaraffia
La scrittrice inglese in visita ad Atene, costretta a convivere tra le vestigia del passato e le anticipazioni del turismo di massa
Tre ragazze, Virginia che ancora non si chiamava Woolf ma Stephen, sua sorella Vanessa e un’amica più anziana, Violet Dickinson, erano partite per la Grecia dove le aspettavano due fratelli. Il 16 settembre 1906 erano arrivate ad Atene. Virginia che, come aveva detto Henry James, era «diventata molto elegante e affascinante, di una bellezza quasi severa», aveva osservato l’Acropoli dalla finestra del suo albergo. Prima era spuntato dall’oscurità «un enorme sperone roccioso», poi due gruppi di colonne «uno bruno come la roccia, l’altro bianco e delicato». Avvicinandosi, le era dispiaciuto vedere i danni inferti dal tempo alle colonne del Partenone che però era rimasto «ancora giovane e splendente». Ma la luce era così intensa che si faceva fatica a alzare lo sguardo fino al fregio del tempio. Tutta quella bellezza l’aveva intorpidita, ma quando si era rifugiata nel museo dell’Acropoli era rimasta abbagliata non più dal sole, ma dalla testa arcaica di un efebo. «Le statue belle hanno uno sguardo mai visto sul viso dei vivi…, una specie di serena immutabilità». Sembrava che il volto di quel ragazzo fosse stato scolpito quella mattina stessa. «È come il bacio dell’alba».
Al tramonto si erano spostati sul viale delle Tombe, la via Sacra. L’erba era alta e bisognava fare attenzione a non inciampare nei frammenti di marmo e di terracotta. Su un sepolcro una bambina si separava dai genitori mentre il suo cagnolino giocherellava. «All’improvviso ci siamo accorte che stavamo camminando su mucchi di polvere e che il suolo era pieno di capolavori». Erano tornati sull’Acropoli al tramonto, quando la luce rossastra la rendeva di una bellezza indescrivibile.
«Nessun luogo sembra più pieno d’energia e vivo di questo palco di antiche pietre morte». Nel tempio di Plutone erano state disturbati dall’irruzione di un gruppo di turisti tedeschi che sembravano considerare il sito una loro proprietà. Senza badare agli altri, avevano iniziato a scattare fotografie sotto lo sguardo divertito dei piccoli mendicanti greci.
La nuova Atene era simile a tante altre città mediterrannee. La Grecia moderna era così «inconsistente e precaria» che solo a paragonarla al suo passato andava in pezzi. Aveva la sensazione di essere arrivata troppo tardi. Mentre andavano a Eleusi dove gli antichi Greci andavano in processione. Quello che veniva chiamato il museo era in realtà una baracca piena di frammenti, tra cui una «nobile» Vittoria. Non aveva più la testa, le ali e le braccia, eppure bastavano l’armonia delle linee del corpo e del panneggio per renderla indimenticabile.
Avevano pranzato sul monte Pentelico all’ombra di grande albero sotto gli sguardi curiosi delle guide allungate a terra. «La valle profumava di timo». Ma ogni sera l’Acropoli continuava ad attirarli. Poco a poco avevano cominciato a conoscerla da ogni punto d’osservazione. Avevano visto i poveri seduti sui marmi antichi a chiacchierare e a lavorare a maglia. «La gente di Atene non è più ateniese di me».