di Tino Mantarro | Fotografie di Giacomo Fe'
Passeggiate nel parco, vita di paese e sci di fondo, per Parco Nazionale d'Abruzzo il turismo sostenibile è la risorsa per lo sviluppo delle comunità
La prima volta che lo senti nominare sembra lo soluzione a un cruciverba da Settimana Enigmistica. Sette verticale, tre lettere: paese Bandiera Arancione Touring in provincia dell’Aquila, finisce con la I. Risposta? Opi, quattrocento anime arroccate, è il caso di dirlo, su uno sperone di roccia a 1250 metri in alta val di Sangro, all’ombra del monte Marsicano, Italia centrale. Ma le mappe spesso raccontano una geografia senza emozioni. A Opi siamo nell’entroterra dell’entroterra, sulla dorsale appenninica, scheletro dell’Italia centrale. Quell’Italia che l’artista olandese Maurits Cornelis Escher amava percorrere a primavera, quando era solito lasciare Roma e battere queste contrade montane a piedi o in compagnia di un asino. C’è una sua veduta, graffiata nel 1929, che immortala proprio Opi. Se si sale lungo la strada regionale 509 verso Sora, all’altezza di una curva a sinistra ci si può fermare e guardare il paese proprio dal punto in cui si fermò Escher.
«Vista da cartolina» si direbbe se non si avesse fantasia. Un panorama dall’alto: un borgo affusolato e raccolto sulla cima del costone roccioso, sembra una portantina appoggiata sul dorso di un elefante. Luogo raro, dimenticato dalla speculazione edilizia. Non ci sono brutture architettoniche che stonano con l’armonia delle case massicce che si sorreggono l’un l’altra da secoli. Ce n’è solo una azzurra e un paio sull’ocra, il resto è tutto grigio pietra: quasi si volesse mimetizzare con la roccia del monte Marsicano sullo sfondo. C’è solo un bar in paese, chiuso il lunedì. Un negozio di generi alimentari, un’edicola che vende tabacchi, l’ufficio postale, la farmacia e cinque piccoli musei. Per il resto, oltre alle case grigie, non c’è nient’altro. O meglio, c’è tutta la silenziosa bellezza di Opi e dei pendii boscosi che la circondano.
Boschi fitti fitti: faggi e aceri che per secoli hanno costituito la ricchezza relativa del paese. Grazie anche alla tradizione degli “usi civici”: ovvero la gestione comunitaria della pulizia del bosco e del taglio degli alberi, che ancor oggi assicura agli abitanti legna per riscaldare le case a prezzo di costo e un piccolo gruzzolo al Comune. Sulla sinistra una larga piana acquitrinosa dove incrociano cavalli al pascolo, è una riserva Sic – sito di importanza comunitaria – e in stagione è punto di passaggio degli aironi. Più oltre, gli impianti sciistici di risalita di Pescasseroli chiudono la valle. Tutt’intorno, a far da corona vette di oltre 2mila metri dai nomi duri, monte Amaro, monte Petroso, monte Greco, i monti della Marsica: la culla di Opi.
«Dal 1929 il paese non è cambiato molto – dice il sindaco Berardino Antonio Paglia, che è anche il commercialista del paese, perché nelle piccole realtà ognuno indossa sempre più di una casacca –. Il paese nuovo è a valle, lungo la strada per Castel di Sangro, con le casette antisismiche costruite dopo il terremoto della Marsica del 1915, ma quassù tutto è rimasto come era». Che questo sia un bene o un male dipende dalla prospettiva con cui si guarda le cose. Dal punto di vista di chi va in vacanza a Opi è un bene, per chi ci vive forse potrebbe non esserlo stato in passato. Oggi non aver rovinato l’antica armonia architettonica è un valore su cui lavorare per costruire un turismo sostenibile.
Merito, forse, anche del Parco nazionale d’Abruzzo Lazio Molise, che qui è nato nel 1922. I primi 500 ettari affidati alla società che stava creando la riserva erano infatti nella val Fondillo, poco più a sud di Opi ma nel suo territorio comunale. La zona è il cuore selvaggio del parco: foresta vetusta a protezione integrale, regno di camosci e altri animali selvatici che non mancano. A Opi nelle notti d’inverno senti gli ululati dei lupi appenninici, che da queste montagne non se ne sono mai andati. «Scendono nel pianoro qui davanti verso Pagliara, per cercare cibo e bere, dove una volta stavano le bestie e adesso c’è un signore che alleva capre» racconta il sindaco. Sarà anche per questo che nel 1956 qui intorno girarono Uomini e lupi, con Yves Montand e Anna Magnani. «Del resto un detto abruzzese dice: Piana di Opi, piana di lupi» spiega Andrea di Marino, lo storico locale. «Conosco il territorio, le sue case e la sua storia come le dita delle mie mani» sottlinea. Il che vuol dire che se inizia a raccontare non si ferma più. Come non si ferma chi ti racconta dei suoi incontri più o meno ravvicinati con l’orso: c’è chi se l’è trovato nell’orto, a banchettare sul melo; chi nel pollaio, a servirsi da solo; chi per strada, tornando a casa la sera. Lupi e orsi sono un risultato del successo, a livello di conservazione della fauna, del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Successo che non si è riusciti a replicare nel turismo. «Per lunghi anni in questa zona si è inseguito il turismo di massa, fatto di secondo case e grandi alberghi per sciatori, perdendo il legame con il territorio» spiega il sindaco. Però quel turismo grazie a Dio è morto.
E adesso bisogna inventarsene un altro per sostenere l’economia e trattenere qui i giovani. Che è poi la sfida per ogni paese dell’entroterra, altrimenti si rischia l’estinzione. «Puoi riempire 8 pullman da 50 persone e trovare da dormire per tutti» fa i conti Di Marino. Un albergo di proprietà del Comune in gestione a privati, due campeggi, un hotel con 120 camere e una manciata di b&b nel centro storico: se le strutture non mancano, da cambiare allora è l’approccio di chi arriva. «Va spiegato che Opi non è un posto vicino a Pescasseroli dove andare se lì non trovi posto, ma una località turistica a tutti gli effetti che punta su un’ospitalità diversa, diffusa e sostenibile» prosegue Paglia. E nel farlo punta anche sulla neve, ma orizzontale, per lo sci da fondo. «La scuola di sci è stata fondata negli anni Ottanta, oggi conta dieci maestri di cui 3/4 in stagione riescono a lavorare ogni giorno» spiega Nunziata Boccia, una delle istruttrici. La scuola è l’orgoglio del paese: non c’è bambino che non sia passato sull’anello di Macchianera, a 9 chilometri dal paese. Qualcuno, come Biagio, è anche arrivato a disputare i Mondiali e tutto il paese era davanti alla tv.
Dunque, oggi come ieri, la risorsa qui si chiama ancora montagna. «Abbiamo 150 chilometri di sentieri segnalati e dobbiamo puntare sul turismo naturale. Sulla scoperta di un paesaggio rado, poco popolato, ricco di boschi» racconta Roberto Rinaldi, 53 anni, di Casalpalocco. Lui Opi l’ha scoperta da piccolo. «Venivo in estate con la famiglia, non avevamo parenti ma alla fine mi sono trasferito. Certo non è una scelta facile, la gente fa il percorso inverso: ma qui potenzialmente di lavoro ce n’è molto, te lo devi inventare». Come ha fatto Gianicola, 25 anni, guida escursionistica ma anche idraulico. «Paradossalmente è più facile, perché è un territorio vergine dove tutto è da sperimentare. Se vuoi restare devi rischiare: tanti studiano fuori e poi rimangono lì senza fare il lavoro per cui hanno studiato. Ma anziché fare il lavapiatti a Londra perché non tornare e provarci?». Roberto è anche presidente della Sort, la cooperativa nata nel 1984 che negli anni ha gestito il bar, l’ostello e il ristorante del paese. «Ha contribuito a sviluppare il turismo locale, poi le strutture sono state privatizzate e camminano con le loro gambe».
Negli ultimi anni c’è voglia di ritorno e l’idea di investire per lo sviluppo del turismo sostenibile. Anche se il terremoto dell’Aquila si è fatto sentire e ha in parte frenato il turismo. «Siamo lontani centinaia di chilometri, ma le persone sentono parlare di terremoto d’Abruzzo, si mettono paura e non vengono più» spiega Roberto. Povera geografia, mai studiata abbastanza. Nonostante questo la cooperativa in estate impiega fino a 15 persone. «Gestiamo il Museo della Foresta, in val Fondillo, e il Museo del Camoscio, in centro. Oltre al punto di accoglienza della val Fondillo e la bottega del Parco, che è anche bar e ristoro» aggiunge. Peccato che nella bottega non si trovino prodotti locali. «La verità è che, miele a parte, non si produce più nulla qui intorno: qualcuno fa del formaggio, ma l’agricoltura tradizionale si è persa» si rammarica Roberto. «L’economia rurale è morta – conferma il sindaco –. Specie da quando si è smesso di usare il tratturo regio che partiva da Pescasseroli e passava per Opi, diretto in Puglia». In campagna non ci va più nessuno, ad allevare animali sono rimasti in due. Così il turismo non diventa traino dei prodotti locali, perché non ce ne sono. Oltre a un paio di apicultori e al negozio di artigianato della signora Marino, l’unica attività produttiva è il forno a legna di Tommaso, che ogni giorno cuoce i suoi 50 chili di pane. Eppure tutti concordano: è il momento di rilanciare i lavori agricoli, perché il turismo premia la genuinità dei sapori locali. «Va fatto per il paese, è il modo per tenerlo in vita» commenta Gianicola.
Questa idea di fare qualcosa per se stessi ma anche per il paese la senti spesso a Opi. Segno che qui come negli altri borghi Bandiera arancione d’Italia c’è un grande attaccamento da parte di chi rimane. Te ne accorgi parlando con Carlo e con Fabiana, due delle anime della Pro Loco. «È stata fondata 41 anni fa e da allora è sempre stata un riferimento» racconta Carlo, il presidente. «Siamo aperti tutti i giorni, assistiamo cittadini e turisti: dai biglietti dell’autobus alla biblioteca, da internet fino al medico» spiega Fabiana. Gestiscono un piccolo Museo etnografico sulla vita del paese, organizzano passeggiate, concerti e sagre. «Per finanziarci facciamo affidamento sulla buona riuscita della sagra degli gnocchi, in estate, quando arrivano migliaia di persone» racconta Carlo. In quel momento Opi è in fermento: duecento famiglie a pelare patate, costruire stand, preparare il sugo. Sono i giorni in cui si capisce che tutti hanno davvero a cuore il destino del paese. «Ti devi per forza dare da fare, dobbiamo pensarci noi opiani, altrimenti chi ci pensa?» spiega Fabiana. Così lasciando Opi torna in mente Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo».