La Svizzera come era una volta?

L’Appenzello interno è la regione più tradizionale di tutta la Confederazione: i suoi paesaggi ricordano la valle di Heidi, la cui autrice invece trasse ispirazione da Maienfeld, nei Grigioni. Da San Gallo ai Grigioni riprende il nostro Grand Tour of Switzerland

Da bambino uno se l’aspetta così, la Svizzera. Un po’ come l’Appenzell Innerrhoden, l’Appenzello Interno. Un posto che se avesse avuto un principe sarebbe diventato un principato, come il Liechtenstein, sicuro. La conformazione delle montagne è ideale per farne un regno a parte: sembrano colline dolci e arrotondate, se avessero i cipressi al posto degli abeti sembrerebbe di essere in Toscana. E invece sei in Svizzera, in una conca intorno agli ottocento metri di altezza, dove i prati sono popolati di mucche, 18 per ogni famiglia dice la regola tradizionale. Mentre di capre ognuno ne ha quante ne vuole, purché siano dispari, che in questo mondo antico sono assai legati alle superstizioni.

Ma prima di andare in Appenzello bisogna parlare di San Gallo, un po’ perché la storia le ha legate (Appenzello è stato un dominio dei vescovi che reggevano l’abbazia di San Gallo), un po’ perché per arrivarci puoi decidere di passare da San Gallo e la città merita una sosta. Perché c’è stato un momento della storia recente a cavallo tra Otto e Novecento in cui San Gallo è stata la città più ricca e cosmopolita della Svizzera. Dicono che a inizio secolo dalla stazione partisse un treno settimanale per Parigi. Non fermava a Zurigo, era diretto. Univa la capitale dell’haute couture con la capitale mondiale dei merletti. Questa storia non è documentata: forse è solo un vezzo che gli abitanti amano raccontare, un orgoglio mal celato per la ricchezza che fu. Ricchezza legata all’industria tessile – prima venne il lino, le cui piantagioni si estendevano dal centro fino al lago di Costanza, poi i merletti – che ha segnato il profilo architettonico della città. Il centro storico di San Gallo conserva un fascino semplice e piuttosto immediato: ordinata bellezza, con le case a graticcio che racchiudono l’imponente mole del Monastero. Una città nella città, patrimonio Unesco per la chiesa, ma soprattutto per la pomposa biblioteca barocca. Un sanatorio per le menti che conserva 180mila volumi, di cui 35mila nella sala antica, specializzata fin dal Medioevo in teologia.

Bastano però due passi in più in là, in direzione della stazione ed ecco che le strade diventano un catalogo di palazzi primo Novecento, allineati e compatti, balconi in ferro battuto, linee dritte con improvvisi accenti di fantasia. Facciate che nascondono antichi uffici commerciali ispirati ai palazzi americani e raccontano dell’epoca felice in cui San Gallo era la capitale del tessile grazie alla dedizione delle corporazioni che gestivano produzione e commercio e applicavano regole rigide in fatto di qualità e chi cercava l’eccellenza non aveva altra scelta che venire a cercarla qui. Un bel museo – il Textilmuseum – spiega con dovizia di particolari la storia di quest’industria che ha cambiato il volto della città, donandole un aspetto sontuoso che la fa assomigliare a una piccola Parigi e la fa apparire più grande e cosmopolita. Per rendersi conto di quanto in realtà sia grande San Gallo con i suoi 75mila abitanti bisogna prendere il Mühleggbahn, la funicolare usata come una specie di ascensore che in galleria risale i 200 metri di dislivello fino alla collina. Bastano pochi passi per arrivare in un luogo che sulle prime non capisci se sia un parco pubblico o semplice campagna. Fatto è che ci sono tre piccoli laghetti che costituivano la riserva d’acqua della città e oggi sono una riserva di natura che rimanda a un’altra epoca e ad altre latitudini. Bagni di legno che sembrano quelle costruzioni color pastello che si trovano sulle spiagge del Baltico, trampolini per tuffarsi e moli sui quali prendere il sole, mentre in acqua tutti nuotano come fosse il lago dell’eterna giovinezza. Intorno orti e panchine; più in alto una passeggiata da cui si domina la città e si gode una vista trionfante sui tetti e sulla vallata che scivola verso il Lago di Costanza.

Ma quando prendi il treno verso l’Appenzello Interno la cosmopolita San Gallo sfuma subito. Sale lento, attraversando prati verdissimi, con le mucche che ti guardano a un metro dal finestrino, mentre le case cambiano fattezze e abbandonano la maestosità urbana diventando casolari in legno con gerani alle finestre, fiori in giardino e stalle attaccate all’abitazione. La conformazione geografica della conca in cui si trova il semicantone di Appenzello è di una bellezza rara, tale da far pensare a un miniaturista che abbia collocato villaggi, case isolate, rifugi con un ordine scenografico preciso. La sua eccezionalità non è data tanto dal paesaggio quanto dall’essere la regione più tradizionale della Svizzera, una sorta di “come eravamo” vivente. Un luogo in cui la tradizione ancora gioca un ruolo importante e scandisce la vita della comunità. Ma se non si arriva nel momento esatto in cui c’è qualche evento come la Landsgemeinde, in cui i cittadini si riuniscono in piazza per un esercizio di democrazia diretta dove si vota per alzata di mano; o la processione del Corpus Domini, ecco che i sette piani del Museo etnografico diventano il luogo migliore dove farsi un’idea. Raccoglie oltre 25mila oggetti e immagini che forniscono una radiografia esaustiva della vita quotidiana del cantone.

Una volta visitato aleggia la domanda: perché in un Paese per molti versi ipermoderno Appenzello è rimasto così ancorato alle tradizioni? Tante le possibili risposte, come sempre la verità è legata a una combinazione di fattori. Si tratta di una valle chiusa, legata a un’economia rurale (l’agricoltura occupa il 12% della popolazione), con un turismo che è sempre stato assai locale e non ha sconvolto una comunità comunque esigua (16mila persone). Storicamente è stato sempre “diverso”: un’isola di cattolicesimo circondata da protestanti, il che ha certo influito sull’attaccamento alle tradizioni, legate a doppio filo all’identità religiosa fieramente esibita e difesa. Così ogni giorno tra il museo e il Comune si tengono dimostrazioni degli antichi mestieri o sessioni di canto folklorico con fisarmoniche, violoncelli, xilofoni intervallate da canti jodel, ovviamente tutto in costume tipico. Neanche che gli appenzellesi fossero i quaccheri della Svizzera. Decisamente meglio dei costumi sono birra e formaggio, orgoglio locale. Assai curioso invece notare come la tradizione delle case dipinte, attrattiva turistica tra le maggiori di Appenzello – la capitale del semi-cantone –, non sia per nulla antica come si sarebbe portati a credere. Si tratta di una tradizione inventata, con tanto di data di nascita e creatore. Negli anni Venti il pittore Johannes Hugentobler dipinse la figura di un uomo sulla torre dell’orologio: il disegno piacque al farmacista che chiese a Hugentobler di dipingere sulla sua facciata le piante medicinali più usate a mo’ di bugiardino illustrato. Siccome il paese è piccolo ecco che i vicini hanno preso a dipingere le case. E così l’aspetto urbano – grigio e color legno come altrove – è cambiato: acquisendo colore e un che di didascalico con il racconto delle tradizioni dipinto sui muri.

Così viene da pensare che oggi Appenzello sembra proprio il paesaggio incantato dove uno si immagina di trovare Heidi. Ma quando la scrittrice svizzera Johanna Louise Spyri scrisse il primo dei 48 volumi della saga della ragazzina delle Alpi non si ispirò a questi alpeggi, ma a quelli di Maienfeld, nei Grigioni. Durante le sue vacanze a Bad Ragaz un’amica la portò in un villaggio di media montagna appena sopra Maienfeld dove conobbe una bambina di nome Amalia, che apparteneva a una povera famiglia di contadini e divenne l’ispirazione per creare Heidi. La casetta di Amalia, una ruvida costruzione montana su due piani del tutto uguale alle migliaia di case di montagna della zona è diventa l’unica vera, riconosciuta Heidi Heimat, la patria di Heidi. Lo testimoniano le migliaia di turisti che vengono a vedere la casetta e la baita d’alta montagna dove Heidi andava con il burbero nonno, ricostruita duecento metri più su. Se nel Nord Europa il successo è dovuto ai libri, altrove Heidi è la ragazzina del cartone animato, che nella sua versione più fortunata – del 1974 – fu girato da Hayao Miyazaki, il principe dei film di animazione nipponici. Si spiega così l’affollamento di turisti giapponesi che amano da matti farsi ritrarre nella postazione fotografica davanti alla casa, con la testa dentro allo scudo rosso del Grand Tour. E proprio a uso e consumo dei turisti nel negozio vendono di tutto: tazze, magneti, pupazzi, giocattoli, cappellini, persino la cioccolata brandizzata. Tutti dedicati a lei: Heidi, la ragazza delle Alpi vero simbolo della Svizzera nel mondo.