di Antonio Armano | Foto di Andreas Bastian
Fondato da un napoletano, celebrato da scrittori e parolieri, il porto sul Mar Nero conserva quel fascino decadente dal gusto un po’ sovietico
A Odessa bisogna arrivarci via mare in un'alba d’estate, dice lo scrittore Vladimir Žabotinskij (e futuro fondatore dell’esercito israeliano). È un approccio romantico che richiama una delle canzoni più famose di tutti i tempi: ’O sole mio. Edoardo Di Capua l’ha composta nel 1898 durante una splendida alba proprio mentre si trovava a Odessa, ispirato dalla bellezza di una nobildonna, Anna Maria Vignati-Mazza, detta Nina e vincitrice del primo concorso di bellezza partenopeo. Il testo è di Giovanni Capurro, giornalista del quotidiano Roma. Io sono arrivato a Odessa al tramonto. Contravvenendo al consiglio di Žabotinskij e alle suggestioni canore napoletane, mi sono affidato alla musica del caso e alle braccia di Morfeo. Sono andato in albergo a piedi dalla stazione e mi sono addormentato presto. Alla mattina mi sono svegliato – non all’alba naturalmente – e sono uscito trovandomi immerso in un altro luogo comune odessita: il cortile. A dire il vero non me ne sono reso conto subito. Mi sono accorto che si trattava di qualcosa di particolare – i balconi alla turca, i gatti, le botteghe, il viversi addosso –, ma ne ho avuto la conferma solo decollando al ritorno e leggendo Il mago di Odessa, un libro sullo scrittore più famoso di questa città, Isaak Babel’: «E il cortile qui era una specie di cellula primaria della società. In cortile cuocevano la marmellata, facevano il bagno ai bambini [...]. Nelle calde notti estive dormivano sotto le vecchie acacie, uscivano in cortile con i loro dolori, gioie, difficoltà, speranze, celebravano i matrimoni, commemoravano le dipartite. E a nessuno interessava la classe sociale, la prosperità materiale o, che Dio non voglia, la nazionalità: russa piuttosto che greca, ucraina, ebrea, polacca, tedesca, turca: purché fosse una brava persona. E qui parlavano non in russo, ucraino o ebraico, ma esclusivamente in odessita, così come i parigini si esprimono in dialetto parigino».
Durante la stessa mattina dopo l’arrivo, mi sono messo a passeggiare scoprendo di abitare vicino a un «mercato dei libri» immerso in un grande viale alberato, prospettiva Aleskandrovskij. Purtroppo. Per viaggiare leggero e non alleggerire il portafogli tendo a limitare l’acquisto, a frenare la mia bibliofilia. Per fortuna il mercato dei libri sembra limitarsi a un paio di chioschetti. Mi attirano due volumi: uno è la biografia del più famoso criminale di Odessa, il gangster ebreo Mosè Vinnickij, detto Miška Japončik, Micky il giapponese potremmo tradurre; l’altro un vocabolario russo-odessita. Apro il dizionario. Come tutti i microcosmi che si rispettino, le città-mondo, anche Odessa ha uno slang proprio. Decido di restare fedele all’imperativo di non appesantire il mio zaino e sto per riporre il dizionario quando vedo una voce che mi affascina: moreman. Nello slang odessita indica un marinaio della flotta mercantile ed è un composto di more (mare in russo) e man, uomo in inglese. In questa parola si trova una traccia dello straordinario intreccio culturale di Odessa. Per popolare il principale sbocco slavo sul Mar Nero, dunque su un mare caldo e sempre navigabile, vengono lasciati affluire fiumi di popolazioni da ogni parte d’Europa e in particolare dall’Europa bagnata dal mare: greci e italiani, ma non solo. Io, tra parentesi, abito in vicolo dei Greci. C’è poi una via degli Italiani e una via degli Ebrei. Che qui sono arrivati in tanti, fino a raggiungere un terzo degli abitanti nell’800. Gran parte sono emigrati a New York nel ’900 e non per niente Brighton Beach viene chiamata Little Odessa. A un certo punto del romanzo I cinque – il più famoso romanzo su Odessa –-, Žabotinskij scrive, a proposito della folla che gremisce un molo: «Se fosse possibile ascoltare, ascoltereste il più bel suono mai creato dall’umanità: cento lingue differenti».
Lo stesso fondatore della città riflette questa impronta multiculturale. I russi lo chiamano Osip Deribasov e gli hanno dedicato una delle vie principali, dove si passeggia e ci si ferma in un caffè all’ombra per bere o mangiare il pesce del Mar Nero, la kambala. Osip Deribas in realtà si chiamava José De Ribas. Nato a Napoli da padre catalano e madre irlandese durante la dominazione spagnola, arruolato nell’esercito zarista, l’ammiraglio trasforma un villaggio tartaro in un insediamento zarista che diventa la città più multietnica dell’impero russo. Con questa impronta, non stupisce che Odessa fosse considerata la quintessenza dell’umorismo, della tolleranza e della scaltrezza umana tra Vladivostok e la Turchia. Cosa è rimasto di tutto questo dopo il grande pogrom contro gli ebrei del 1905, la rivoluzione bolscevica, la seconda guerra mondiale e la dominazione sovietica? Compro il dizionario, pentendomi subito dell’acquisto. Chissà chi usa più lo slang odessita. Poco oltre il parco, mi fermo a fare due chiacchiere con una strana coppia. Avranno sui sessant’anni e stanno vicino a una gabbia con dentro delle colombe e davanti un gatto. Chiedo che fanno e lui mi racconta di avere viaggiato come moreman nella flotta sovietica. Mi pento di essermi pentito e sono contento di non dovergli chiedere che cosa significhi, grazie al dizionario. L’uomo è magro, ha un bel viso abbronzato, una moglie un po’ massiccia e mi racconta che ha navigato molto. Aveva un’amante a Venezia. Adesso raccatta qualche soldo aspettando gli sposi fuori dalla sala delle cerimonie del Comune. Forniscono qualche servizio. Come l’affitto delle colombe per una foto.
Nonostante le tragedie storiche che ho elencato – e la guerra in Ucraina –, Odessa è oggi un luogo abbastanza tranquillo e ha mantenuto qualche traccia della mentalità tollerante, disincantata e ironica; nonché della multiculturalità. Il rogo alla Casa dei Sindacati in cui hanno perso la vita manifestanti filo-russi nel 2014 è un ricordo doloroso ma lontano. Si stringe amicizia facilmente con tutti. Nel parco dei libri, ho conosciuto vari personaggi interessanti. Un cambiavalute clandestino che mi ha dato un biglietto da visita con nome, cellulare e l’immagine di un dollaro; il discendente di una coppia di esuli arrivati qui negli anni Trenta, durante la guerra di Spagna. Di notte passeggiando per le vie sotto gli alberi, ho conosciuto un tassista discendente di italiani che lavorano nel teatro dell’Opera. Il teatro dell’Opera è l’architettura che domina il centro, la Scala di Odessa. In stile neoclassico, ha ospitato molti cantanti d’opera italiani e trae origine da un primo teatro che serviva per intrattenere gli equipaggi delle navi appena arrivati e sottoposti a quarantena. Nei pressi del teatro c’è un interessante museo della Letteratura. Tra i vari reperti esposti mi hanno colpito una coppa di cristallo dove beveva Puškin, una specie di sacro graal della letteratura russa. Puškin ha soggiornato qui venendo poi espulso per le sue arditezze intellettuali e amorose: era diventato l’amante della moglie del governatore di Odessa, Voroncov, che l’ha umiliato imponendogli lavori demenziali. Un altro reperto, tra i tanti, sono gli occhiali di Babel’. Che cosa potranno mai avere di interessante un paio di vecchi occhiali rotondi? Scrittore ebreo, goffo fisicamente e molto attratto dalle donne, Babel’ era affascinato da personaggi che vivono la vita a petto in fuori e con coraggio: i cosacchi che racconta nel suo capolavoro L’armata a cavallo; e il gangster Mosè Vinnickij, che racconta in una serie di short-story – poche per la verità – raccolte in un volume intitolato I racconti di Odessa. Qui Vinnickij – passato dalla parte dei bolscevichi e ucciso da loro stessi – compare sotto il nome di Benja Krik. Babel’, nato nel popolare quartiere ebreo della Moldavanka, era affascinato dalla figura del criminale e ne crea una mitologia che probabilmente è il primo romanzo criminale della storia. La tivù russa ne ha tratto un serial in tempi recenti: C’era una volta in Odessa. Se Babel’ era il tipo dell’ebreo goffo e quattrocchi, Benja Krik era il figlio di un carrettiere, lesto di mano, senza paura ma con molte macchie e un fondo di umanità. Un criminale buono, per quanto buono potesse essere un criminale. A differenza di Babel’ non aveva «gli occhiali sul naso e l'autunno nell’anima». Non era un leone sulla pagina e non tremava in mezzo alla gente. Praticamente dietro al mio hotel, in via Žukov c’è il palazzo dove i Babel’ hanno vissuto in un momento di floridità economica. Qui è stato aperto un bistrot di stile francese, il Dom Babelja (La casa di Babel’) e un negozio Bang&Olufsen. Una statua di Babel’, poco sopra, guarda pensosa gli sviluppi postumi della gloria e della città.
Passeggiando di sera per il centro di Odessa, tra edifici d’epoca che testimoniano la ricchezza di un porto nato per esportare il grano dell’Ucraina e importare merce di ogni tipo, si finisce per scendere la famosa scalinata che in Italia molti conoscono per via del film La corazzata Potëmkin e soprattutto per la sua lettura fantozziana. È stata progettata dall’architetto Francesco Boffo e inaugurata nel 1841. I 192 gradini finiscono naturalmente nel porto, uno dei maggiori scali del Mar Nero, il principale dell’Ucraina, dominato dalla torre dell’hotel Odessa e dalle gru che caricano e scaricano container. La zona delle spiagge e delle discoteche si trova piuttosto lontano dal centro. Si può arrivare in tram, ma dopo il tramonto si deve tornare in taxi. Il lungomare, tra i grandi alberghi e le spiagge affollate – Arkadia la più nota –, è una specie di paese dei balocchi, dove rozzi giochi di forza slavi si alternano a grandi giostre globali, american-bar a locali dove tirare l’alba. Si ritorna in taxi, e la corsa non costa poco rispetto al costo medio della vita decisamente basso per le tasche di un occidentale. Contratto con diversi tassisti finché non ne trovo uno che si accontenta di venti euro. Non sono niente per una lunga corsa notturna ma lo stesso mi sembra un furto. Per consolarmi penso al destino di Di Capua e Capurro. ’O sole mio viene presentata al concorso della casa discografica Fernando Bideri, ma arriva solo seconda. I due autori muoiono in miseria senza assistere al trionfo della canzone. Di Capua aveva il vizio del gioco. Puntava sempre un numero del Lotto mai uscito. Babel’ viene fucilato nel ’40, nell’ultimo periodo del terrore staliniano a Mosca. Nello stesso anno Žabotinskij, sionista radicale, considerato il fondatore del futuro esercito israeliano, viene stroncato a New York da un infarto, mentre cerca di convincere gli ebrei a emigrare in Palestina. Odessa è il porto della precarietà della vita, e per quanto possibile invita a godersela. L’alba del lunedì arriva presto.