Ponza, l'isola mare & monti

Nel cuore del Tirreno una terra da vivere tutto l’anno e che, fuori stagione, permette di godersi panorami spettacolari e percorsi di trekking tra fari, macchia mediterranea e vigneti

Ci sono luoghi nel nostro Paese che sono più Italia di altri. Luoghi che esprimono al meglio quel mix insuperabile di storia, arte, tradizioni, sapori che ci caratterizzano nel mondo. Luoghi benedetti dalla natura che hanno visto avvicendarsi popoli e culture, ma che sono anche frutto dell’ingegno dell’uomo e del suo lavoro. È questo il caso di Ponza, l’isola dal cuore campano e la carta d’identità laziale, che ormai da anni è una delle star delle vacanze italiane.
La dimensione psicologica e fisica dell’isola non è data dal mare che la circonda, la confina e la collega, la imprigiona e la conforta, ma dalla terra, che dà un senso al suo esistere e le regala forza e unità. Il senso claustrofobico del limite, la libertà esaltante dell’isolamento: ci vuole coraggio a vivere in un’isola, sequenza infinita di partenza e di approdi, dove tutti gli eventi sembrano amplificati, acquistano un valore maggiore, assoluto. Ponza ha imparato a sue spese che cosa sia l’attesa, di un uomo, di una barca, di buone nuove. Ha conosciuto la miseria di un destino sordo che non assolve e costringe ad emigrare, il dolore nostalgico dei confinati, le solitudini dei marittimi. Ma anche la forza di antichi vulcani, il legame tenace con i propri avi e le proprie tradizioni, il senso della speranza che regala una vela lontana. È un mondo circoscritto, che si arrotola e si srotola fra alture, faraglioni, coste frastagliate, falesie, grotte e insenature, che regala molto ma non si dà mai completamente. Come le sue splendide spiagge, da quella del Frontone a Cala Feola, da conquistare in barca oppure con buone gambe, alla bella delle belle, Chiaia di Luna, raggiungibile via terra con l’antico tunnel romano scavato nel tufo, oggi chiusa per il pericolo di crolli della vertiginosa falesia che la sovrasta.

Ponza è un’isola fedele e di fedeli, che ti lascia toccare la sua anima ma non te la svende, anche se spesso scende a patti con il mare su cui sembra sospesa. Oltre all’abitato disposto ad anfiteatro intorno al porto del XVIII secolo che dà nome all’isola, chiuso dalla neoclassica chiesa della SS. Trinità e dominato dalla torre borbonica, pochi centri solitari, un ramage di strade, stradine, alberghi e casette dai colori pastello, i profili e le cornici di un bianco accecante, con terrazze e altane che reclamano il Tirreno, dove decantare emozioni e panorami. Bella, certo, eppure Ponza non è un’isola ruffiana, non corteggia, non adula il turista avido di vacanza e di altrove, che accoglie ancora secondo l’antico codice dell’ospitalità più che quello del moderno marketing turistico. Se d’estate, affogata da una luce pura e orgogliosa che imbeve cose e persone, la fa da padrone il mare, in autunno la natura, meno affannata e più padrona di se stessa, regala una terra da gustare piano piano, passo dopo passo, in un trionfo di ginestre, di casette abbarbicate a pendii ribelli, di vedute mozzafiato dalle quali giocare con l’orizzonte e la voglia di reinventarsi.
Soli o in compagnia, sono ben otto, di diversa durata e difficoltà, gli itinerari di trekking che si inerpicano su alture e sfiorano ruderi gloriosi, vigneti e coste vertiginose per conquistare panorami che allagano mente e cuore. Libera dall’allure modaiola e dall’ansia di essere all’altezza delle aspettative dei turisti estivi, in autunno l’isola riacquista leggerezza e un liberatorio stato d’animo naturale, quasi selvatico.

 

Mare e monti tornano a essere complici, attori di una vicenda primordiale, e raccontano una storia fatta di eventi grandi e piccoli, di conquiste e invasioni, di lusso e di miseria. Resti di grandi ville imperiali romane con ninfei e pescherie, come le cosiddette grotte di Pilato, forti borbonici, monasteri benedettini, case-grotte strappate al tufo, come a Le Forna, ai Guarini e a Giancos, e poi marinai e pescatori, contadini e vignaioli, su tutti domina il monte La Guardia, la sentinella dell’arcipelago ponziano – Gavi, Zannone, Palmarola, Santo Stefano, Ventotene – con i suoi 283 metri di altezza a incombere grifagno sul faro che consola l’omonima punta.  
Furono i primi coloni dell’isola, insediati dai Borbone nel XVIII sec., a rivoluzionare l’aspetto di questa montagna, un tempo coperta di boschi. I terrazzamenti nati per disciplinare pareti ribelli che precipitano nel mare, costruiti per dare respiro all’agricoltura, richiedevano molto legno, e La Guardia perse i suoi capelli. Ma l’isola trovò un piccolo tesoro. Biancolella e Forastera, i vitigni campani impiantati da quei pionieri, diedero vita al Fieno, il vino locale anticamente lavorato in vasche scavate nella roccia e conservato in cantine ricavate nel tufo. Una vera e propria viticultura eroica per le difficoltà logistiche di accesso e lavorazione dei vigneti, con altissimi costi di produzione e scarsa resa, che costringono a cimentarsi con sentieri impervi e la mancanza di approdi.

Per gli amanti del trekking che non ne hanno ancora abbastanza l’isola di Zannone, la più settentrionale dell’arcipelago, accessibile dietro autorizzazione (parcocirceo.it), con il suo anello costiero di cinque chilometri, offre la possibilità di una bella sgambata fra una fitta vegetazione di lecci, eriche, fichi d’India e ginestre alla scoperta della villa in abbandono dei Casati Stampa e dei suggestivi resti del convento di S. Spirito, lasciato alla fine del XIII secolo dai religiosi a causa delle frequenti incursioni dei pirati saraceni. Disabitata dal 1979, l’isola, che culmina nel monte Pellegrino, appartiene al Parco nazionale del Circeo, e meriterebbe forse un’attenzione maggiore da parte delle autorità preposte alla sua tutela per la sua rilevanza naturalistica, che vanta la presenza di specie migratorie come il falco di palude e il falco pellegrino, ma anche mufloni portati qui negli anni Venti. Dopo tanto camminare ci si merita una bella cena. Anche in questo campo Ponza riserva grandi sorprese e una gastronomia che sa conciliare le due anime dell’isola, il mare e la terra, e punta su prodotti e materie prime di grande qualità. La stella Michelin dell’Acqua pazza di Gino Pesce e Patrizia Ronca regala culinari voli pindarici, mentre l’Oresteria di Oreste Romagnolo unisce all’ottima cucina un locale giovane e informale. Se Oreste è mare, vivace, spumeggiante, Assunta è terra. È madre, è storia, è famiglia: mani forti, fisicità prorompente, cuore saldo e idee chiare. Nel suo ristorante, di nome e di fatto A casa di Assunta, si ritrovano sapori antichi e piatti senza fronzoli ma mai banali e scontati, rispettosi dell’ospite e delle materie prime. Con tutto il sapore e il significato di una cucina che, nell’epoca dei vari Masterchef, non dimentica il valore della semplicità. E il senso della vita.

 

Fotografie di Dionisio Iemma