L'eleganza del faggio

Francesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco Tomasinelli

Un albero “comune”, ma che unisce tutto il continente europeo. Per questo l’Unesco ha deciso di inserire sei faggete italiane nel Patrimonio dell’Umanità. Un risultato straordinario frutto di un bel lavoro di squadra

Senz’altro li avrete notati qualche volta, visto che ricoprono i versanti di moltissime montagne italiane, soprattutto lungo la catena appenninica. Magari, però, non sapete che i grandi alberi dalla folta chioma che d’autunno si tinge di giallo e di arancio sono faggi: alberi resistenti, adattabili a molti climi diversi, utilizzati dall’uomo fin dall’antichità sia per il legno duttile (Virgilio nelle Egloghe dice che è ottimo per realizzare recipienti) sia per i loro frutti, le faggiole, apprezzate dagli animali e da cui si può ricavare un olio nutritivo. Silenziosi protagonisti della natura italiana, dunque, di cui finora nessuno aveva mai parlato sui quotidiani. Fino al luglio scorso, quando le faggete italiane sono finite in prima pagina: sei nuclei di boschi sono stati infatti insigniti del riconoscimento di World Heritage Site, i siti Patrimonio dell’Umanità riconosciuti dall’Unesco. Per l’Italia è il sito numero 52. Ma come mai proprio le faggete?

«È stato un processo lungo e difficile, ma ce l’abbiamo fatta!». Le parole di Gianluca Piovesan trasudano entusiasmo. Insieme all’equipe di Dafne, dipartimento dell’Università della Tuscia che si occupa di alta formazione nel campo della conservazione delle foreste e della natura, Piovesan da anni studia le faggete italiane ed è stato il coordinatore della candidatura Unesco. «Un lavoro enorme, basti dire che il dossier di presentazione comprendeva 500 pagine... ». Perché non si creda che candidare un sito sia una cosa facile: ci vogliono anni di studi, ricerche, preparazione scientifica. E poi anche diplomazia, contatti politici... tutto è in bilico fino a che la Commissione Unesco pronuncia il fatidico sì. Piovesan ci racconta com’è nata questa complessa candidatura. «Tutto ha origine dal sito che dal 2007 tutela le foreste primordiali di faggi di Slovacchia e Ucraina. L’Unesco nel 2011 ha poi incluso nel sito anche alcuni boschi tedeschi, chiedendo alla Germania di fare da volano per ampliare la rete: si voleva infatti far diventare il sito un “sito seriale”. Ecco allora che sono partiti i progetti di ricerca in molti Stati europei. Perché le faggete sono diffuse in tutta Europa, si trovano foreste di faggio dalla Svezia alla Sicilia, è l’unico albero così diffuso nel continente, una vera e propria colonizzazione avvenuta dal termine dell’ultima era glaciale: si spiega così l’interesse dell’Unesco a proteggerle».

L’Italia si è subito data da fare, mentre altri Paesi si sono sfilati. Al nostro stupore – perché mai uno Stato non vorrebbe avere un sito Unesco sul suo territorio? - Piovesan risponde chiaramente: «perché la tutela Unesco è integrale, è un’azione che va a vincolare il bosco, l’uomo non può più toccarlo! E alcuni Stati volevano briglie più sciolte, per disporre degli alberi anche in altro modo». Per farla breve, hanno aderito alla nuova candidatura 10 Paesi: Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Polonia, Romania, Slovenia e Spagna. ­E naturalmente l’Italia.

Attenzione, però. Non tutte le faggete di questi Paesi sono entrate nel sito Unesco. Soltanto 63 nuclei (sei italiani) di faggete definite “vetuste”, cioè molto antiche, e che rispondono a determinati criteri. «L’Unesco è molto chiaro in proposito: bisognava dimostrare l’unicità e l’universalità di queste faggete», racconta Alfredo Di Filippo, che lavora con Piovesan nello stesso dipartimento. «L’importanza del sito non può essere locale: abbiamo dovuto escludere molte bellissime faggete perché non abbastanza rappresentative». Di Filippo ci racconta le peculiarità di ogni faggeta italiana diventata sito Unesco. Il primo è un cluster, ovvero un insieme di cinque boschi nel parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise: qui si trovano i faggi più antichi dell’emisfero settentrionale, con alberi addirittura di 560 anni. Due foreste nella Tuscia laziale – protette in parte da parchi regionali – sono il secondo e il terzo sito: i loro faggi non vivono a lungo, ma sono quelli più alti e quelli che crescono più a bassa quota (450 m), peraltro su suoli vulcanici. Le foreste del parco nazionale del Gargano (Foresta Umbra e bosco del Falascone) hanno la maggiore biodiversità arborea, mentre quelle del parco nazionale del Pollino (bosco di Cozzo Ferriero, in Basilicata) sono quelle più a sud dell’intera rete. Per finire, il sesto sito: quello di Sasso Fratino, in provincia di Forlì-Cesena, parte del parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, una straordinaria faggeta sottoposta a un regime di riserva integrale già dal 1914 – in questa riserva, cioè, nessuno può entrare (se non i ricercatori e i guardaparco) e la natura è libera di fare il suo corso.

Dicevamo che le faggete premiate dovevano essere “vetuste”. «Questi boschi», continua Piovesan, «ospitano gli alberi più longevi del pianeta per quanto riguarda le latifoglie decidue», ovvero gli alberi che perdono le foglie. «Un patrimonio unico», gli fa eco Di Martino «perché nei boschi vetusti c’è un’altissima biodiversità, gli alberi che stanno morendo forniscono materiale per nuovi cicli di vita». I tronchi morti sono casa di piccoli mammiferi e insetti, per esempio: cosa che non succede nelle foreste dove l’uomo mette mano, per esempio “ripulendo” il sottobosco dai rami o – peggio – tagliando regolarmente gli alberi. Alcune delle faggete tutelate dall’Unesco sono riuscite a “scampare” dalle mani dell’uomo perché in luoghi impervi e poco accessibili (Pollino, Casentino); altre per una sorta di spinta romantica, come quelle laziali, intatte perché belle e raffigurate da artisti. «Il faggio è anche un ottimo bioindicatore: studiandolo nelle sue differenti aree di diffusione, si può simulare per esempio il suo comportamento in climi caldi e aridi, come quelli verso cui stiamo andando», conclude Piovesan.

E ora che le nostre faggete sono un bene Unesco? «Ora viene il bello!», sorridono i due ricercatori. «Ora iniziano la pianificazione, la stesura di linee guida comuni, il monitoraggio, i progetti congiunti». Intanto sottolineiamo un altro aspetto importante: il grande lavoro di squadra che ha portato a questo riconoscimento. Sia nel Casentino sia nel Gargano, per esempio, le foreste tutelate sono proprietà del Demanio e gestite dal Corpo Forestale, ora all’interno dell’Arma dei Carabinieri, che ha sostenuto questa candidatura. Solo collaborando tutti insieme la natura italiana può essere protetta al meglio.

Fotografie di Francesco Tomasinelli