di Roberto Casalini | Illustrazioni di Gianluca Biscalchin
A Roma, il padre della psicoanalisi si innamora della statua di Michelangelo.
Freud e Roma, una lunga storia d’amore. Freud e Mosè, una lunga storia di identificazione. A Roma il fondatore della psicoanalisi arriva per la prima volta nel 1901. Se ne innamora e ci torna a più riprese. Nel 1912 arriverà a scrivere alla moglie Martha: «Il mio progetto per la vecchiaia è sicuro: non un cottage, ma Roma». Freud ama l’antichità classica, colleziona oggetti antichi e usa l’archeologia come metafora per la sua esplorazione dell’inconscio. Quanto al Mosè, già nel 1901 scrive: «Improvvisamente ho capito, per mezzo di Michelangelo». E nel 1909, all’allievo prediletto Carl Gustav Jung: «Lei, come Giosuè, prenderà possesso della terra promessa della psichiatria, che a me, Mosè, è dato di vedere solo da lontano». Nel 1913 Freud è, ancora una volta, nella Città Eterna. Ricorderà, vent’anni dopo: «Tutti i giorni, durante tre solitarie settimane sono stato in chiesa davanti alla statua, l’ho studiata, misurata, disegnata». La chiesa è S. Pietro in Vincoli, la statua quella di Michelangelo, parte del mausoleo a papa Giulio II. Ne scaturisce un saggio celebre, pubblicato nel 1914.
Affascina Freud che il Mosè di Michelangelo non sia quello della tradizione, che infrange le Tavole della Legge e si prepara a fare strage degli adoratori del vitello d’oro, ma un leader in un momento di conflitto interiore, che riesce a trascendere l’ira «a vantaggio e in nome di una causa, compiendo la più alta impresa psichica possibile all’uomo». Il Mosè con il piede pronto a scattare, per Freud, è quello dopo la collera, che trattiene le Tavole della Legge e si tormenta la barba. Che evita di rovinare tutto dominandosi. Come lo stesso Michelangelo di fronte al dispotico committente Giulio II che lo percuote con il bastone. O come lo stesso Freud di fronte al “traditore” Jung, che in pubblico sparla di lui.