Incontri con Paolo Cognetti

Cognetti è un montanaro-scrittore che ha scelto una valle alpina (la val d’Ayas) come propria residenza. Nel silenzio, lontano dai rumori della città e dalla folla riesce a concentrarsi e a scrivere.

Incontriamo Paolo Cognetti al Museo del Novecento, a Milano. Deve parlare di New York in occasione di una mostra qui al Museo (non a caso, visto che ha curato l’ultima edizione della Guida Verde Tci New York), ma noi gli vogliamo strappare qualche suo pensiero sulla montagna.
Salito alla ribalta delle cronache soprattutto dopo la vittoria al Premio Strega, ottenuta con il suo libro Otto montagne, edito da Einaudi, è ora “condannato”, si fa per dire, a essere ospite di talk-show e incontri, dibattiti e festival per parlare della “sua” montagna.
L’aspetto è rassicurante, la chioma e la barba rossa, le sopracciglia folte e scure ce lo dipingerebbero come un classico discendente dei walser, popolo di origine alemanna che ha colonizzato nel medioevo le valli intorno al Monte Rosa, tra Valle d’Aosta e Piemonte, dove ora lui abita. Sembra un montanaro che ha preso carta e penna. Ma in realtà non è così. Cognetti nasce e cresce a Milano negli anni Settanta e frequenta le montagne da ragazzo solo d’estate. Occasioni sporadiche che però nel tempo gli resteranno dentro. Ora Paolo è famoso e sta diventando per antonomasia “lo scrittore di montagna”, grazie all’enorme successo dell’ultimo libro, dopo aver fatto il cuoco e il barista per mantenersi, anche se la passione per lo scrivere si è manifestata presto, già nelle aule dell’università. Ora è un montanaro-scrittore che ha scelto una valle alpina (la val d’Ayas) come propria residenza. Nel silenzio, lontano dai rumori della città e dalla folla riesce a concentrarsi e a scrivere.

Esiste la letteratura di montagna come esiste quella di mare? Pensa di aver aperto un nuovo filone con Otto montagne?
La letteratura di montagna non è certo paragonabile a quella di mare, ma ritengo che esista e non certo per le mie opere, semmai si deve fare riferimento a Mario Rigoni Stern, vero e autentico scrittore di montagna.

La letteratura di montagna comprende anche la letteratura di alpinismo? Gli editori continuano a pubblicare resoconti di imprese di scalatori e arrampicatori, segno che il mercato li richiede.
I libri di alpinismo, salvo poche eccezioni, hanno poco valore letterario, trattano storie individuali, trasudano di egocentrismo in quanto la montagna è solo lo sfondo del racconto avventuroso.

A proposito di alpinismo, arrampica o ha arrampicato nel passato? E se sì, fino a quale difficoltà?
Ho arrampicato fra i 13 e i 18 anni e ancor oggi sono socio del Cai e seguo da vicino il mondo dell’arrampicata. Superavo vie estremamente difficili, classificabili con i gradi 6b e 6c.

Lei oggi vive in montagna, in una baita. Ma che futuro hanno i paesi di montagna?
La montagna oggi è la periferia della città. Non c’è molta differenza, si guarda la stessa tv, si mangia lo stesso cibo. Solo il paesaggio è diverso: boschi e prati invece di condomini. Non c’è più quel rapporto profondo con il territorio che avevano i vecchi montanari. I condomini dei paesi di montagna sono seconde case che ricopiano le periferie delle città.

Quale è il suo luogo ideale di montagna?
Ovviamente quello che ho scelto, la val d’Ayas. La valle di Gressoney, dove ho passato l’infanzia con la famiglia, è infatti più chiusa, con i versanti più ripidi. La val d’Ayas è aperta, luminosa e solare. Il mio secondo luogo ideale di montagna è il Nepal. Sto per ritornarci...

Come vede le fonti alternative di energia che si trovano oggi in montagna come i piccoli bacini imbriferi per la produzione di elettricità, le pale eoliche o i pannelli solari?
Pale e pannelli sono antiestetici e rovinano l’architettura tipica di baite e case d’epoca. Il problema è che dovremmo andare verso una riduzione dei consumi.

Tra i grandi alberi della montagna preferisce il larice o l’abete?
Sicuramente il larice. L’abete è scuro, triste. Il suo bosco è buio, opprimente, mentre il lariceto è arioso, sorridente. E poi d’autunno cambia colore, si tinge di giallo-arancio: è ancora più bello.

La montagna ha un futuro per l’economia del nostro Paese? La stessa Italia, anche se non è percepito dalla gente, è un Paese che ha più montagne che pianure.
Si sta assistendo a un fenomeno di ritorno in montagna da parte di molti giovani. Sono i cosiddetti “nuovi montanari”, ragazzi di città che cercano un’alternativa al lavoro d’ufficio e fondano piccole aziende agricole, allevano capre e mucche, coltivano patate. Ma è un fenomeno ancora piccolo. L’unico vero sviluppo che vedo per la montagna è legato alle aree protette, i parchi e il conseguente turismo “naturalistico”.

Ha toccato la parola magica: il turismo. Il Touring Club Italiano da 123 anni promuove il turismo. Un turismo consapevole, possibilmente lento ed ecocompatibile. Anche il turismo in montagna. Secondo lei però non va regolamentato?
In Italia, soprattutto le Alpi, stanno diventando un luogo di grande fascino soprattutto per gli stranieri. Gli italiani purtroppo sono pigri e non camminano, salvo eccezioni, ma gli stranieri li trovi ormai a centinaia, anzi a migliaia, sui nostri sentieri. Sono nordeuropei, giapponesi, anche americani. Il giro del Monte Rosa, per esempio, che passa dalle mie parti è frequentatissimo; d’altra parte ci sono panorami maestosi da lasciare incantati.

C’è gente impreparata che affronta i sentieri con le infradito, si fa male e poi deve chiamare il soccorso alpino. Ci sono luoghi di montagna troppo affollati. I concerti di musica in alta quota, per esempio, stanno diventando di moda: portano centinaia di persone. Come li vede?
Sull’impreparazione, soprattutto sui turisti di casa nostra, bisogna lavorarci ed educare. Spetta anche ai media. L’affollamento di certi luoghi alla moda va combattuto proponendo mete alternative e altrettanto interessanti dove, proprio perché poco frequentate, è facile fare incontri con animali selvatici come cervi, caprioli o camosci.
I concerti in alta quota sono una trovata turistica, ma non vedo problemi di ecosostenibilità se i rifiuti si portano a casa e l’ambiente dopo il concerto torna intatto. Certo però che se si deve portare un pianoforte in quota con l’elicottero, come è successo recentemente, allora no, non sono d’accordo. La montagna in alta quota non va profanata con i rumori dei rotori se non per il soccorso
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Foto di Roberta Roberto