di Viviano Domenici
Come ho scoperto, durante una spedizione archeologica in Mongolia, che i fossili di dinosauro – detti "ossa di drago" – hanno l'uso alternativo di cura contro il mal di testa.
I grossi camion russi della spedizione paleontologica italo-mongola di cui facevo parte avevano lasciato da qualche giorno Ulan Bator, la capitale della Mongolia, ed erano diretti nella remota regione del Nemegt, nota per la presenza di resti di dinosauri di quasi cento milioni di anni fa. Col passare dei giorni m’ero quasi abituato alla guida a dir poco disinvolta di Nergui, l’autista, che teneva il volante con una sola mano mentre con l’altra si reggeva la testa tenendo il gomito appoggiato al finestrino aperto. La pista sembrava un percorso da motocross ma lui guidava ostinatamente in quel modo sconsiderato e, solo dopo molte mie insistenze, confessò che aveva un forte mal di testa. A poco servirono gli analgesici che gli diedi; inutili esattamente come certe pillole che si preparava impastando una misteriosa polvere che conservava in una minuscola fiaschetta di giada. Arrivati nella spettacolare zona delle “Rocce fiammeggianti”, mettemmo il campo su un terreno coperto di pietre e frantumi d’ossa di dinosauro.
Quel giorno feci due scoperte di diversa natura. La prima fu quella di un uovo di dinosauro che sembrava aspettare proprio il sottoscritto da milioni di anni; la seconda fu scientificamente meno importante ma decisamente più sorprendente, e riguardava i segreti della medicina alternativa in versione mongola. Una sera, mentre montavo la tenda a ridosso dei camion, vidi il mio autista attorniato dai suoi colleghi che, con uno spago in mano, gli misuravano la circonferenza della testa, la distanza dalla punta delle dita alla punta del naso, la lunghezza di una gamba e poi dell’altra. Sembravano sarti intenti a prendere le misure.
Domandai cosa stessero facendo e loro, con espressione preoccupata, mi risposero che Nergui non stava affatto bene: il giorno della partenza da Ulan Bator era caduto scendendo le scale di casa e aveva battuto la spalla sui gradini e dato un gran testata nel muro, e da allora il suo corpo era asimmetrico e stentava a ritrovare la giusta simmetria, nonostante le “ossa di drago” che prendeva tre volte al giorno. Mi ricordai d’aver letto sui libri di antropologia che, un tempo, nelle farmacie cinesi si vendevano rimedi a base di polvere di ossa fossili (ritenute ossa di antichi draghi) nella convinzione che fossero la panacea per tutti i mali.
Chiesi spiegazioni ai misuratori e scoprii che anche il mio autista praticava la medicina tradizionale e si curava con le pillole prodotte triturando frammenti di ossa di drago che raccoglieva senza farsi vedere dai paleontologi, sempre intenti a scavare e misurare ossa di Protoceratopi e Tarbosauri. Pillole che non mi sembrava facessero un granché; più o meno come quelle che gli davo io. Il dolore continuava e lui era sempre più sfinito, ma i suoi colleghi misuratori si mostravano fiduciosi e mi spiegarono che, cercando le ossa dei draghi giusti e modificando la posologia, si potevano curare anemie, mal di stomaco, emicranie e – soprattutto – dolori alle ossa. Naturalmente.
Sulla via del ritorno, dopo un mese di viaggio, Nergui sembrò migliorare, tanto che teneva il volante con entrambe le mani, e anch’io mi sentii subito meglio. Il viaggio nel passato remoto era finito e, tornato in Italia, seppi che il mio autista era stato ricoverato in ospedale dove gli riscontrarono i postumi di un serio trauma cranico. Se la cavò e sono certo che va ancora in cerca di ossa di drago.