Low cost sì, ma a che prezzo?

Per la prima volta nella sua storia Ryanair cancella migliaia di voli e lascia a terra altrettanti passeggeri. Un fatto episodico o il primo segnale di crisi della formula che ha rivoluzionato il viaggio aereo?

Almeno per qualche mese Michael O’Leary dovrà volare basso. Dopo quasi un trentennio di successi è il minimo per il patron di Ryanair. Nel 1986 il vulcanico irlandese sfidava la compagnia di bandiera Aer Lingus sulla rotta Dublino-Londra. Allora un biglietto costava 400 sterline, Ryanair mise in vendita i tagliandi a 94,99 e cambiò il mondo dell’aviazione, trasformando quello che era stato un privilegio per pochi in un mercato di massa. Ma negli ultimi mesi le magnifiche sorti et progressive della rivoluzione low cost sembrano essersi fermate. Da metà settembre a fine ottobre sono stati cancellati 2.100 voli, fino a marzo saranno 18mila con oltre 4milioni di posti scomparsi, 35 le rotte sospese, 25 gli aerei messi a terra. Colpa di una gestione allegra delle ferie, coincisa con il contemporaneo esodo dei piloti verso compagnie che pagano meglio. Vero o meno, si tratta del primo granello di sabbia che ha inceppato la formula. Il successo di Ryanair è stato costruito su un modello di business basato su quattro pilastri: il principale è il contenimento esasperato dei costi di produzione, dalla flotta con un solo tipo di aereo agli stipendi del personale, ridotto ai minimi, così come i diritti. A questo si è sommato una politica dei prezzi spregiudicata, pensata per attirare qualunque tipo di cliente, soprattutto quello che prima non volava. Tutto questo (ed è il terzo punto) pur di assicurare l’elevato riempimento degli apparecchi, con punte del 97%, Alitalia è ferma al 78%. Per farlo Ryanair ha deciso di servire scali (e città) secondari, coinvolgendoli nel grande business del turismo, ricevendo in cambio ingenti finanziamenti in forme diverse.

Un modello che fino a oggi ha funzionato, portando la compagnia irlandese a diventare il primo vettore in Europa per numero di passeggeri (127 milioni lo scorso anno) e quello con i margini maggiori: ogni 100 euro che incassa, 20 sono di utili netti. Ma anche il basso costo ha un costo, e in tanti iniziano a rendersene conto. Ryanair ha il più basso costo del lavoro di tutto il comparto aeronautico: personale di terra, piloti e steward pesano per 5 euro sul prezzo di un qualsiasi biglietto. Per EasyJet sono quasi dieci, per Norwegian il triplo. Per le compagnie tradizionali una delle voci più pesanti. Chiaro è che, dietro a quei cinque euro, ci sono condizioni di lavoro al limite della causa e una gran massa di persone disposte ad accettare l’impiego pur di entrare nel settore. Oltre a una sindacalizzazione inesistente e alla tendenza a far firmare al personale contratti in Paesi con una fiscalità di favore. Ma una sentenza della Corte europea che ha imposto il rispetto delle regole nazionali per i piloti ha messo in crisi il sistema. Così, se fino a ieri per Ryanair il cliente e i dipendenti avevano sempre torto, adesso qualcosa deve cambiare. Se O’Leary può anche far spallucce davanti all’ira dei 400mila passeggeri lasciati a terra all’improvviso lo scorso settembre, non può far altrettanto con il suo personale. Tanto che anche lui ha dovuto ammettere: «Abbiamo fatto un pasticcio e per questo chiedo scusa, personalmente, a ognuno di voi». E ha promesso ai suoi piloti bonus e nuovi contratti di lavoro.

Ma il sistema dei trasporti low cost si regge anche su una copiosa iniezione di denaro da parte degli enti che amministrano gli scali. Il fallito aeroporto di Rimini assicurava a Ryanair ben 41 euro di contributi per ogni passeggero trasportato. A Verona, sono arrivati sull’orlo del crac garantendone 24. Uno scandalo? La questione è dibattuta: secondo un pronunciamento dell’Unione europea i finanziamenti alle compagnie non sono da intendersi come aiuti di Stato, ma come incentivi allo sviluppo di scali secondari. In gergo si chiama co-marketing e solo in Italia vale una cifra tra i 40 (secondo il ministro Delrio) e i 110 milioni (stime indipendenti) di euro l’anno. Vuol dire che ogni scalo paga alle compagnie (sotto forma di sconti sulle tariffe aeroportuali, pubblicità sul sito e altre trovate) un tot per ogni passeggero trasportato. Di norma i passeggeri arrivano in massa (è il caso di Orio al Serio, Pisa o Bari) e l’investimento ritorna più che raddoppiato sotto forma di denaro che rimane sul territorio, anche se calcoli esatti non ne esistono.

E qui si arriva al turismo, perché la rivoluzione low cost non ha solo democratizzato i cieli aprendo nuove rotte per destinazioni prima assenti dalla mappa. Ha contribuito a creare la tendenza dei soggiorni brevi nelle capitali, volando spesso nelle città secondarie straniere purchè dotate di uno straccio di pista e una connessione con i centri maggiori. Lo ha fatto allevando una generazione di viaggiatori a volare pagando poco e aspettandosi poco in cambio. Perchè alla fine quel che conta per molti è semplicemente andare da A a B pagando il meno possibile, il resto è un orpello. Una rivoluzione sociale paragonabile all’istituzione delle vacanze che ha un rovescio evidente nell’invasione senza ritegno (spesso a braccetto con le navi da crociera) di alcune destinazioni, da Barcellona a Dubrovnik/Ragusa, da Amsterdam a Ibiza. Invasione che ha un costo sociale e ambientale, perchè il turismo “facile” trasportato dalle low cost impatta sulle risorse idriche, sullo smaltimento dei rifiuti e in generale sulla qualità della vita degli ospiti e degli ospitanti. Insomma, la crisi di questi mesi può essere l’occasione per una riflessione sul nostro modo di viaggiare. Ma una cosa è certa: quando siamo sul loro sito a prenotare tutti odiamo Ryanair, ma continueremo, maledicendola, a volarci.