A casa di Bond, Giamaica Bond

Lo Hyatt Zilara resord di Montego BayGoldeneye a Ocho Rios

Negli anni Cinquanta l’isola caraibica divenne il buen retiro di Ian Fleming, il creatore dell’agente segreto più famoso del mondo. Che cosa rimane di quel set di film d’azione?

 La prima legge per un agente segreto è conoscere bene la geografia.  La Giamaica è un’isola delle Grandi Antille situata nei Caraibi orientali. Quasi tre milioni di abitanti, una consolidata posizione nell’immaginario contemporaneo come terra tropicale languida e indolente (vero), permissiva e fumosa (falso, il consumo della cannabis è stato depenalizzato solo quest’anno) dai ritmi ipnotici e assai musicali (verissimo). Uno di quei posti sempre in cima alla lista quando si dice: «Mollo tutto e apro un bar sulla spiaggia». Oltre a essere l’isola di Bob Marley e Usain Bolt, del reggae e dei velocisti, del rastafarianesimo e dell’allegria come regola di vita, la Giamaica è anche l’isola di Bond, James Bond. L’agente segreto che non deve chiedere mai, inventato dallo scrittore britannico Ian Fleming che qui svernò due mesi l’anno per quasi vent’anni. Gli anni che turisticamente rappresentano l’epoca d’oro della Old Jamaica, terra di un colonialismo in via di dissoluzione che qui conservava le sue atmosfere.
«Ho esaminato una gran parte del mondo – scrisse Fleming nel 1947 sulla rivista Horizon –, e dopo aver visto tutto questo nel luglio del 1943 ho passato quattro giorni in Giamaica. Luglio è l’inizio della stagione calda, e ogni giorno a mezzogiorno ha piovuto a catinelle. Ma mi sono giurato che se fossi sopravvissuto a quel momento sarei tornato e avrei comprato un pezzo di terra dove costruire una casa in cui passare tutto il tempo che il mio lavoro permette». Nel 1946 lo scrittore acquistò un terreno sulla costa Nord vicino al porto bananiero di Oracabessa, di cui basta il nome per farsi affascinare. A dicembre aveva una casa sul mar Caraibico. Assai semplice (due stanze, una grande sala) e senza finestre «perché gli uccelli dovrebbero entrare e uscire a piacimento». La villa si chiama Goldeneye, dal nome in codice di un’operazione segreta – l’unica – in cui Ian Fleming fu coinvolto durante la seconda guerra mondiale: allestire una rete di agenti segreti in Spagna, nel caso in cui il dittatore Francisco Franco avesse deciso di entrare in guerra e Gibilterra fosse caduta. Non accadde nulla, ma il nome gli piacque.

In quella grande stanza Fleming scrisse una dozzina di romanzi e una manciata di racconti con 007 come protagonista. Il primo, Casino Royale, lo scrisse nel 1952, l’anno in cui Elisabetta II fu incoronata regina. Di questi, tre – Vivi e lascia morire, Dr No e L’uomo con la pistola d’oro – sono in parte ambientati sull’isola. E anche i film tratti da queste storie sono stati girati qui. Al Jamaica Swamp Safari Village, a due passi da Montego Bay, ci sono ancora i coccodrilli sulle cui teste camminò Roger Moore mentre scappava dalle trappole di Mr. Big. Il padrone, che fece da controfigura non c’è più da un pezzo, ma è probabile che quel coccodrillo che sguazza nel fango, Billy, se potesse vedere la pellicola si riconoscerebbe ancora giovane

All’epoca la Giamaica rappresentava per Fleming la combinazione perfetta di azione e sensualità, le stesse caratteristiche di Bond: nuotare la mattina fino alla barriera destreggiandosi in un branco di barracuda e riposare accanto a un ibisco cullato da una leggera brezza che viene da Nord. La vecchia Giamaica dove chi rimpiangeva i fasti dell’impero – e lui era tra questi – era in grado di assaporare la cultura coloniale con la convinzione di essere ancora speciale per il semplice fatto di essere inglese. Un luogo innegabilmente bello, dove dedicarsi a una vita placidamente dissoluta. Contornato da una colonia di artisti che gravitava intorno a lui, al commediografo inglese Noël Coward – quasi suo vicino di casa nella villa di Blue Harbour – e all’attore americano Errol Flynn, uno che quando morì volle essere sepolto con dodici bottiglie di whiskey. Erano un vero Casino Royale gli anni in cui il jet set mondiale si dava appuntamento qui: Marylin e Henry Miller vennero in luna di miele, Chaplin in vacanza, Churchill in cerca di quiete, il primo ministro britannico Eden ci fuggì per riprendersi da un esaurimento, trovando asilo a Goldeneye. Anni di feste senza fine e alcool a fiumi, amori e amorazzi, affari e distrazioni. Anni finiti presto.

Dodici mesi dopo l’indipendenza del Paese, nel 1962, Fleming muore di infarto. Le cose non sono collegate, ma non ci sarebbe nulla di male per un romantico nostalgico dell’Impero. Noël Coward resiste fino al 1973: la sua villa era l’epicentro di una gran vita notturna che vide protagonista Liz Taylor ma anche Sophia Loren. Anche se lui scelse una sorta di auto-esilio progressivo nella grande villa di Firefly – oggi museo nazionale – nella quale aveva deciso di vivere per concentrarsi, evitando la vita dissoluta di Blue Harbour. Ma ormai erano già altri anni, più fumosi e decisamente rock. Della Giamaica di Fleming rimane poco, tutto è cambiato, solo la regina Elisabetta è ancora al suo posto. Ma qualcosa di quel glamour e di quell’atmosfera si trova ancora, basta sapere dove andare a guardare.

Per scovarlo bisogna lasciarsi alle spalle le pur belle spiagge della zona orientale della costa nord, e andare verso occidente: cinque ore di auto dall’aeroporto di Montego Bay. Fleming punterebbe dritto verso Porto Antonio e ancora oltre. In una parte della costa dove Cuba dista così poco che la si immagina in lontananza, come il ricordo di un sogno svanito. Qui la Giamaica si presenta ancora come quando lo scrittore britannico se ne innamorò. Gli esperti dicono che questa sia la Giamaica più autentica, non toccata dalla moda dei resort tutto compreso da 700 stanze, pensati per gli americani incapaci di uscire dall’albergo. Dove affittare grandiose ville a un passo dal mare, con quel tanto di lusso minimale e spartano che piace a chi ha soldi ma anche una certa vena artistica. Costruzioni nascoste dalla foresta, che qui torna a essere fitta fitta: schiacciata tra un mare così verde e trasparente (da provare Blue Lagoon, dalle cui acque usciva una 14enne Brooke Shields nell’omonimo film)  che camminando dalla spiaggia riesci a contare i pesci in acqua, e il profilo scosceso delle Blue Mountains, la catena montuosa che divide l’isola. Dell’epoca di Fleming rimane orgogliosamente in piedi il Jamaica Inn, l’hotel che assieme al vicino San Souci, ospitava tutto il jet set internazionale. I ventilatori a pale appesi al soffitto ti danno l’impressione di essere lì a girare da sempre; così come alcuni camerieri, in livrea azzurra e cappellino, e i guardiani, vestiti di verde con un sorriso bonario stampato in volto. Anche il barista, Teddy Turker, non è cambiato dal 20 dicembre 1954. Un signore allegro; giura che Fleming ordinasse sempre un «vodka Martini agitato, non mescolato», il preferito di Bond. Ma potrebbe essere un aneddoto ben costruito e lui uno di quelli per cui gli anni che passano trascolorano il passato rendendolo sempre più bello da raccontare. Tempi di cui il Jamaica Inn con le sue 52 stanze senza tv è fascinoso testimone. Qui alle cinque si serve ancora il tè, l’all inclusive è bandito, gradito l’abito lungo per le donne, per gli uomini camicia e pantaloni obbligatori.

Anche se, vien da pensare, oggi Fleming non starebbe in un posto così. «Perché nella vita di un agente segreto ci sono momenti di vero sfarzo» e lo sfarzo oggigiorno è altro. Forse non starebbe neanche all’albergo ricavato dalla sua tenuta, il Goldenye resort di Chris Blackwell, proprietario della Island records (casa produttrice di Bob Marley e dei primi U2) e figlio di Blanche Blackwell, probabile amante di Fleming. Il resort comprende una quarantina di ville (una di Naomi Campbell) semplici e lussuose, costruite su un isolotto creato davanti alla casa di Fleming, che volendo si può affittare a cifre spropositate. Un luogo splendido, ma più adatto a ricchi russi e americani, forse lontani da quell’ideale di paradiso che Fleming cercava nel suo esilio caraibico. E difficilmente passerebbe del tempo nella parte più gettonata dell’isola, la zona che va da Negril a Ocho Rios passando per Montego Bay. Di Negril, la punta occidentale estrema dell’isola, Fleming scrisse: «Sette miglia di sabbia soffice, bianca, incontaminata, contornata per tutta la sua lunghezza da palme che ondeggiano al vento». Oggi sono ancora sette miglia di sabbia soffice punteggiata di palme, solo che da novembre a giugno la spiaggia è affollata di turisti (è la zona preferita dagli italiani) e alle sue spalle è cresciuta una cittadella delle vacanza tutto compreso. Anche qui capita ancora di imbattersi in quelli che Simenon chiamava i turisti da banane: relitti della vita tropicale, ammuffiti da troppe piogge e fumate tristi, rapporti facili e sbornie mal digerite. Se ne stanno in pensioncine da nulla, attratti dal sogno di poter vivere come i locali, abbracciano il rastafarianesimo e la convinta libertà che esso comporta. Più che a James Bond e al suo inventore, legano la propria idea di Giamaica a Bob Marley: One Love vince su Licenza d’uccidere. Ma questa è tutta un’altra storia, iniziata almeno vent’anni dopo.

@ Beppe Ceccato