Ovidio 2000, le Metamorfosi dell’arte classica

Massimo PacificoMassimo PacificoMassimo PacificoMassimo PacificoMassimo Pacifico

A duemila anni dalla morte del celebre poeta latino Ovidio, un itinerario per scoprire l’enorme influenza delle sue opere sui più grandi artisti

 

Se Publio Ovidio Nasone vivesse ai nostri giorni sarebbe un blogger con milioni di follower. E la sua pagina facebook, firmata con lo pseudonimo di PON, riceverebbe ogni giorno like a bizzeffe. Invece il poeta morì solitario, sessantenne, nel 17 dopo Cristo (dunque proprio duemila anni fa) esiliato nel villaggio di Tomi sul Mar Nero, la Costanza dell’odierna Romania, e alla sua pagina di facebook ante litteram (Epistulae ex Ponto) costantemente aggiornata non si collegò quasi nessuno. Meno che mai Augusto, il primo imperatore, che lo allontanò da Roma dalla sera alla mattina, senza neanche dargli il tempo di prepararsi adeguati bagagli, e che mai gli concesse il più volte richiesto perdono.
Ma andiamo con ordine. Ovidio era nato a Sulmo (Sulmona), in terra dei Peligni nel 43 a.C., il 19 di marzo, lo stesso giorno di suo fratello maggiore di un anno. Lo scrive lui stesso, in versi, come solo sapeva scrivere, nei Tristia. Come ogni rampollo di agiata famiglia fu mandato dodicenne a studiare a Roma da Marco Aurelio Fusco e Marco Porcio Latrone e, per il “master”, ad Atene, come si doveva prima di affrontare una carriera in politica o nell’amministrazione, quella che il padre aveva immaginato per lui. Tornato a Roma, presto, Ovidio capì, però, che né la lex né l’oratoria lo affascinavano, e si riciclò poeta frequentando i circoli letterari più in voga, dapprima quello di Messalla Corvino e poi quello di Mecenate, diventando ben presto un acclamato “cantore di teneri amori”.

 

Ovidio dedicò i suoi primi versi soprattutto alla generazione dei teenager, ai giovani inesperti e alle fanciulle che nella peccaminosa metropoli dovevano affrontare le peripezie cui andava incontro chi fosse stato colto dalla freccia di Eros. Raccolse quei versi nei tre libri Amores, Ars Amatoria e Remedia Amoris, insomma l’arte di amare e i rimedi contro le pene di chi non è contraccambiato. Inventò quindi il romanzo epistolare, rendendo pubbliche, nelle Heroides, le lettere (frutto della sua fantasia) che le eroine della classicità avrebbero scritto, abbandonate, dimenticate o tradite, ai loro deprecabili amanti. Non disdegnò neppure, in penuria di chirurghi estetici, di suggerire alle matrone come truccarsi per far fronte agli effetti dell’età. Di questa brillante operetta Medicamina faciei foeminae, purtroppo ci è pervenuto solo un frammento di un centinaio di versi.
Nei primissimi anni del primo millennio Ovidio portò a termine anche il poema, le Metamorfosi, che diventerà un best seller internazionale nel secondo millennio, e del quale, al momento di abbandonare forzosamente Roma, non era del tutto soddisfatto, tanto da desiderare che si distruggessero le “bozze” che non aveva avuto l’occasione di rivedere. In 12mila versi riassumeva, in un ordinato disordine cronologico, tutta la mitologia classica, spaziando dall’iniziale caos all’apoteosi di Cesare e Augusto. Non terminò mai invece i Fasti, nei quali intendeva descrivere tutte le festività religiose romane, giorno per giorno. Ai nostri tempi Ovidio sarebbe stato forse anche un richiesto copywriter per il Calendario Pirelli.
 

 

Perché Ovidio subì per mano di Augusto la relegatio, l’esilio forzato? La domanda rimane senza risposta anche dopo approfonditi studi di esegeti di ogni tempo. Ovidio stesso scrive che lo avevano dannato il carmen (la sua poesia ritenuta licenziosa) e un error: quale fu lo sbaglio? Relazioni illecite, testimonianza di rapporti compromettenti, congiura di palazzo? Forse un giorno lo sapremo.
Per certo invece sappiamo che la più nota delle opere ovidiane, le Metamorfosi, rappresenta un caso editoriale senza precedenti, secondo, a dir di molti, per edizioni e traduzioni, solo alla Bibbia. L’ultima in italiano, di Vittorio Sermonti per Rizzoli, ha fatto scomodare molti critici con meritati elogi, e la sua lettura, da parte di Sermonti stesso alla radio di Rai 3, ha avuto milioni di ascoltatori.
Quanto poi le Metamorfosi hanno influenzato gli artisti, perlomeno da quando l’arte ha potuto tornare a essere anche profana? Un fenomeno sviscerato in due preziosi libri: Le Metamorfosi. Illustrate dalla pittura barocca (Le Lettere, Firenze, 2003; versione italiana dei due volumi editi per Diane de Selliers a Parigi) e Ovid and the Metamorphoses of Modern Art (...) di Paul Barolsky (Yale University Press, New Haven, 2014). Questa volta la risposta è facilissima: «moltissimo, da Botticelli a Picasso», afferma Barolsky, per 47 anni docente della University of Virginia.

 

 

Per verificarlo, ecco un affascinante itinerario italiano a zig zag. Non si può non partire che da Sulmona, l’antica città abruzzese (presentata nel numero di luglio-agosto del 2013 di Touring), almeno per conoscere le presunte sembianze del Genius Loci. Nella centrale piazza XX Settembre, lungo corso Ovidio (e proprio di fronte all’edificio che fu prima Collegio Ovidio, poi liceo ginnasio Ovidio, e ora giace disatteso dagli studenti in seguito al terremoto del 2009 in attesa che le autorità si decidano a ripristinarlo) sorge il monumento al poeta, nelle forme che Ettore Ferrari volle dargli nel 1897 su commissione dei cittadini di Costanza. Quello di Sulmona è infatti una seconda tiratura, perché solo nel 1925, e dopo molti rinvii, i sulmonesi furono in grado di affrontare le spese per la “loro” copia.
Per l’inaugurazione ufficiale si scomodò, di persona, Vittorio Emanuele III. Non presenziò, invece, Ferrari che all’epoca era ancora lo scultore per eccellenza di statue a personaggi ed era molto ben visto da potenti logge massoniche. Non è un caso che a lui si debbano molti monumenti a Garibaldi e anche quello a Giordano Bruno di Campo dei Fiori a Roma. A ben guardare, peraltro, il poeta e il monaco domenicano arso vivo, come li volle Ferrari, si somigliano non poco. Un unicum invece è la statua di Ovidio quattrocentesca (circa 1474) ospitata nell’ingresso del Palazzo dell’Annunziata, il più imponente edificio di Sulmona. Così la descrive, nel 1999, nel suo Immagine di Ovidio, Giuseppe Papponetti, compianto studioso dei versi e delle immagini del poeta: Ovidio compare «in abito dottorale e senza cappuccio, con corona d’alloro, libro e sigla SMPE (Sulmo Mihi Patria Est, Sulmona è la mia patria: il motto ovidiano della città) sovraimpressa in posizione stante, su un poderoso volume borchiato». Che cosa aggiungere che non sia di troppo?
Da Sulmona l’itinerario per il bimillenario ovidiano porta a Caserta, nel parco della Reggia vanvitelliana per ammirare il bacino nel quale precipita la massa d’acqua della Grande Cascata. Vi si riflettono i due gruppi scultorei, di Paolo Persico, Tommaso Solari e Angelo Brunelli, che celebrano il mito di Diana e Atteone, cantato dal poeta sulmonese nel libro III delle Metamorfosi: il giovane cacciatore Atteone, a caccia di cervi con i suoi cani, si imbatte in Diana, circondata dalle sue ninfe, che sta per prendere il bagno nuda. Diana, risentita, trasforma Atteone in cervo che i suoi stessi cani sbraneranno. L’episodio è uno dei più conosciuti e rappresentati delle Metamorfosi. Ci si cimenteranno, tra i tanti, il Parmigianino nella Rocca di San Vitale a Fontanellato; Lucas Cranach il vecchio; Tiziano; Jan Bruegel il Vecchio. Il bagno di Diana e delle Muse fu, in effetti, un ottimo pretesto per esibire nudi femminili in ambienti arcadici. 

 

La tappa successiva è Roma, cominciando con una visita ai Musei Vaticani. Qui si trova, nella Stanza delle Segnature, un’altra raffigurazione del poeta dell’Amore. Si deve a una mano eccelsa: quella di Raffaello Sanzio. Il pittore di Urbino lavorò sulla parete nord della Stanza, al grande affresco detto del Parnaso, intorno al 1509: Apollo è al centro della composizione, suona una lira da braccio ed è circondato dalle Muse. Ovidio è ritratto assieme a diciassette suoi “colleghi”, veste in rosa (porpora sbiadito?), è coronato come tutti gli altri e ha un’espressione dubbiosa, coll’indice della mano destra sulla bocca mentre osserva Orazio. Forse Raffaello, con malizia, immaginava che il sulmonese si potesse chiedere perché Dante nel Limbo (canto IV dell’Inferno) lo avesse relegato solo al terzo posto tra i quattro poeti incontrati (Omero, Orazio, Ovidio, appunto, e Lucano). Sempre a Roma, i cultori dei miti ovidiani non possono mancare una visita alla Galleria Borghese. Tra i tanti capolavori collezionati o commissionati da Scipione Borghese spiccano due gruppi scultorei di Bernini che non hanno bisogno di tanti commenti: Apollo e Dafne (sala 3) e il Ratto di Proserpina (sala 4 o degli Imperatori). Ambedue risalgono al 1622, quando Gian Lorenzo aveva solo ventiquattro anni. E siccome Roma vuol anche dire Caravaggio, ci si prenda un po’ di tempo per ammirare il Narciso ospitato dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica di palazzo Barberini, un dipinto del 1594.

Lasciata Roma, l’itinerario tocca la Galleria degli Uffizi di Firenze per ammirare sotto la luce suggerita da Barolsky, la Primavera di Sandro Botticelli nel rinnovato allestimento della sala che la ospita. Lo studioso americano scrive a proposito: «Il pittore (...) fa riferimento alla leggenda di Flora che Ovidio racconta nei Fasti (...) e trasforma i Fasti nei modi delle Metamorfosi. ‘Ero Chloris ma Zefiro mi prese per farmi sua sposa’. In breve il dipinto suggerisce la trasformazione di Chloris in Flora». Per non far torto ai “minori” si dia anche un’occhiata al Piramo e Tisbe di Gregorio Pagani, ma non si dimentichi un altro famosissimo Caravaggio: la Medusa del 1597. Sempre in tema di Medusa, non sarà infine difficile stupirsi di fronte alla statua in bronzo più famosa della storia dell’arte: il Perseo di Benvenuto Cellini, sempre al suo posto sotto la Loggia dei Lanzi e nel IV libro delle Metamorfosi. 

 

Per chi non fosse rimasto abbastanza sbigottito dall’abilità di Bernini nel rendere nel marmo la elasticità delle carni di Proserpina, l’invito è quello di raggiungere Genova. A palazzo Balbi Durazzo, dal 2006 tutelato dall’Unesco nella lista dei 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova e noto al pubblico come Palazzo Reale per essere stato ceduto nel 1823 ai Savoia, la Galleria degli specchi conserva un altro Ratto di Proserpina, quello dovuto allo scalpello di Francesco Maria Schiaffino (1689-1765).
Il tour si conclude a Mantova, nel Palazzo Te edificato da Giulio Romano, tra il 1524 e il 1534, quale luogo di svago e riposo per i trastulli di Federico II Gonzaga. Già una delle stanze che introducono a quelle monumentali del complesso è intitolata al poeta di Sulmona e ospita piccoli affreschi ispirati dalla sua opera, ma risulta poca cosa in confronto alla sala della Caduta dei Giganti affrescata da Giulio nel corso di tre anni a partire dal 1532. Il tema è quello della battaglia dei giganti, narrata nel primo libro delle Metamorfosi: la lotta (e la sconfitta) dei giganti che si ribellano a Giove e intendono scalare l’Olimpo. L’affresco della Gigantomachia copre tutta la superficie disponibile sulle pareti, sino al pavimento e l’intera cupola da dove Giove scaglia i suoi micidiali fulmini. È probabilmente lo spazio dipinto e frequentabile più impressionante al mondo... Ovidio se l’è meritato!  

 

Foto di Massimo Pacifico