Il tartufo vale un patrimonio. Dell’umanità

L’Associazione delle 54 Città del Tartufo ha promosso la candidatura all’Unesco non solo del prezioso tubero, ma del patrimonio di conoscenza, tradizioni e paesaggio che esso rappresenta

Non c’è tartufo senza tartufaio, e non c’è tartufaio senza il suo cane. In questo adagio che molti appassionati ripetono si coglie il valore del prezioso tubero, un valore che va oltre il suo profumo e il suo sapore per diventare tradizione e conoscenza del territorio. Un patrimonio italiano, diffuso dal Piemonte fino alla Sicilia, che vorrebbe diventare Patrimonio dell’Umanità.
Cerca e cavatura del Tartufo in Italia: conoscenze e pratiche tradizionali: questo il titolo della candidatura promossa dall’Associazione nazionale Città del Tartufo, di cui è presidente Michele Boscagli e direttore Antonella Brancadoro, per inserire il tubero nel Patrimonio immateriale dell’Umanità Unesco. Presentata al Mibact 2017 dall’associazione stessa, ha ricevuto il placet della Commissione nazionale italiana Unesco ed è stata inviata a Parigi a rappresentare l’Italia per il prossimo anno: il responso è atteso per il 2019.
Il dossier (per il quale ricordiamo i contributi scientifici di Piercarlo Grimaldi, rettore dell’Università degli Studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo, e di Giancarlo Molteni dell’Università di Siena) non candida il tartufo tel quel, nella sua dimensione puramente materiale e agricola, quanto piuttosto il patrimonio collettivo di riti, memorie e saperi, di un mondo affascinante, arcaico e magico, che mette insieme natura, uomo e animale (prima il maiale e oggi il cane). È infatti in tale triangolo – che diventa un quadrilatero se assecondiamo chi aggiunge il vanghetto come strumento indispensabile – che si svela, e in parte nasconde, l’unicità della cultura del tartufo, non solo da noi ma in tutte le altre parti del mondo dove il tartufo si trova (Europa, Mediterraneo ma anche Cina e Giappone).

 

Insomma, la vicenda gastronomica come sublimazione di qualcosa di più affascinante anche se meno trendy, almeno di questi tempi. Aspetti che meritano in fondo di essere studiati e condivisi per consegnarli a chi non li conosce e a chi verrà dopo di noi. «L’osservazione degli alberi, degli arbusti, delle radure, la conoscenza dei terreni, dei corsi e delle vene d’acqua, l’osservazione degli insetti, le annotazioni delle date e dei luoghi dei ritrovamenti, l’allevamento e il rapporto con il cane, l’utilizzo degli strumenti per la cerca del tartufo costituiscono un complesso patrimonio tramandato oralmente, di gesti e parole, condiviso dalle generazioni più anziane», dichiara Antonio Degiacomi, vicepresidente delle Città del Tartufo e presidente del Centro nazionale studi tartufo di Alba. In effetti già sulle tavole degli Etruschi e dei Romani il tuber riscuoteva successo e l’origine di questo bizzarro fungo ipogeo, terrae tufer, escrescenza della terra, secondo l’etimologia più accreditata, veniva attribuita all’azione combinata di acqua, fuoco e fulmini scagliati da Zeus in prossimità di una quercia. Da ciò trasse ispirazione Giovenale per teorizzare che il tuber, originatosi dai fulmini divini, avesse qualità afrodisiache. Ecco quindi il tartufo come sublime sintesi sensoriale ed essenza di un piacere superiore e inaccessibile ai più ma anche cibo delle streghe o presenza satanica (cultura medievale ma documentata ancora agli inizi del Novecento in alcune zone del Beneventano e del Piemonte).
Torniamo a oggi: la dimensione del tartufo è anche economica. Dal 2017 il nostro governo ha ridotto dal 22 al 10 % l’Iva sul prodotto, adeguandolo alla forbice presente nel resto d’Europa; il tartufo è stato quindi riconosciuto prodotto agricolo (prima era bene di lusso). Secondo la Coldiretti il giro d’affari nel nostro Paese è stimato in mezzo miliardo di euro, ma c’è anche una forte ricaduta turistica sui territori e sui quei Comuni che sempre più tentano di caratterizzarsi come “luoghi del tartufo”. Non solo Alba col bianco o Norcia col nero: oggi le città che fanno parte dell’associazione sono 54 in 14 regioni: da Acqualagna nelle Marche a Viano in Emilia-Romagna, o se preferite da Mesola (Ferrara), la più settentrionale, fin giù a Capizzi (Me) nel Parco dei Nebrodi. Un giro d’Italia che fa intuire al viaggiatore come ambiente e paesaggio siano strettamente legati al tartufo e alla sua cultura perché solo dentro a un contesto di qualità ci sarà ancora spazio per replicare la magia della sua nascita, quella che faceva scrivere a Plinio nella sua Naturalis Historia che il tartufo sta tra quelle cose che nascono ma che non si possono seminare. Per saperne di più: www.cittadeltartufo.com