di Clelia Arduini | Fotografie di Max Rella
Là dove crescevano i papaveri da oppio ora si estendono piantagioni di caffè e tè. Una riconversione che ha trasformato sentieri di traffico illegale in percorsi turistici tropicali e naturalistici spettacolari
È nero il colore che domina il Nord della Thailandia. Si fa strada nel Paese delle tinte sgargianti e dei sorrisi, tra il marrone dei rilievi al confine con la Birmania/Myanmar e l’argento di fiumi e risaie in odore di Laos.
Non è la rabbia, secondo la simbologia buddista, non è il carbone e nemmeno il petrolio, ma il caffè. Caffè scuro, come gli occhi degli abitanti di queste colline, oltre 300mila anime divise in tribù, originarie della Cina e del Sudest asiatico.
Caffè bollente, come certe giornate della stagione calda quando l’aria rovente si fa satura di umidità.
Caffè, come una creatura viva che in questa parte dell’antico Siam, lontana anni luce dall’azzurro di Phuket e dall’intrico color carne di Bangkok, sta cambiando il destino di uomini e cose.
«Le bruciammo tante volte perché non le volevamo, ma ogni volta quelle piantine ricrescevano più forti e rigogliose, allora ci sembrò che fosse un segno del cielo e cominciammo la produzione». Così racconta Panachai Phisailert, 47 anni, ai tempi degli incendi appena un bambino, oggi direttore dell’azienda cooperativa Doi Chaang Coffee, nel distretto di Mae Suai, provincia di Chiang Rai: 30mila ettari di piantagioni di caffè della varietà arabica, 3.500 tonnellate l’anno, 1.200 famiglie impiegate nella produzione, a circa 15mila euro l’anno (un tesoretto rispetto ai salari della zona), 300 caffetterie per il Paese che vendono il suo prodotto.
«Qui – dice Panachai indicando le colline e l’orizzonte – crescevano le piantagioni di papaveri da oppio, coltivate dalle tribù locali tra cui i rifugiati cinesi fuggiti dallo Yunnan durante la rivoluzione culturale di Mao. Mio padre Pikor era tra questi». Per decenni fu quella la loro fonte di sostentamento delle tribù: l’oppio. Non a caso infatti la zona costituiva uno dei lati di quel Triangolo d’oro che, con Laos e Birmania, produceva oltre 3.000 tonnellate l’anno di oppio puro, sufficienti per raffinare in piccoli laboratori nascosti nella giungla 300 tonnellate di eroina. Un vero e proprio impero del male.
A partire dagli anni Settanta, le cose cominciano a cambiare. Viene avviato il Royal Projects Foundation, un grande progetto di riconversione dell’area, sostenuto in seguito anche dall’Onu. Grazie all’impegno della principessa madre Mae Fah Luang e di suo figlio Rama IX (ndr. morto alla fine del 2016 dopo aver regnato 70 anni), promotore di studi sul microclima e sui terreni per individuare le coltivazioni che si adattassero a quelle colline e a quell’umido tropicale, papà Pikor si convince. Insieme a una quarantina di famiglie cinesi, minoranze Akha e Lisu, inizia a coltivare piante di caffè della varietà arabica introdotte, grazie al sovrano, dall’Etiopia e dal Kenia. Però, per mancanza di collegamenti stradali e a causa dei ribassi applicati dai distributori della città, il tentativo si rivela un disastro e così si decide di eliminare le piantine, bruciandole, appunto. Ma il re ripete come un mantra alle comunità di non mollare e allora si ricomincia, si ripianta tutto. Poi, il miracolo. Migliora la vendita del caffè, si realizza la prima strada: all’inizio è sterrata poi dopo qualche anno diventa asfaltata.
Panachai accarezza il sacco di iuta ricolmo dei preziosi chicchi neri, venduti perfino in Italia, e indica l’emblema dell’azienda nata nel 2002, un viso scavato con gli occhi a fessura e uno strano copricapo: è suo padre Pikor, il visionario uomo del caffè che, scappato da una rivoluzione, ne ha decretata un’altra, pacifica, contribuendo a realizzare anche una fondazione che sostiene le minoranze cinesi della zona, e un’Accademia del caffè dove si insegna a coltivare la pianta, raccogliere le bacche e tostare i chicchi.
La bonifica agricola e sociale voluta dalla Corona thailandese ha puntato pure su piantagioni di tè: macchie di brillante verde – sempre nel distretto di Mae Suai – hanno ormai sostituito le coltivazioni d’oppio e ora, con pini, tek e noci di macadamia, illanguidiscono il paesaggio, estendendosi sui fianchi di colline e pianori come se ci fossero sempre state. C’è anche il posto delle fragole, teneramente allineate nelle serre in strisce di tenue rosso: sanno di poco, per ora, ma sono giovani e miglioreranno, curate da cooperative di nuove generazioni che non hanno mai visto i papaveri da oppio.
La trasformazione delle terre del Nord in meta alternativa o complementare ai più conosciuti percorsi turistici sta attirando un numero crescente di visitatori tra quegli oltre 25 milioni – di cui 260mila italiani nel 2016 – che visitano ogni anno la Thailandia, contribuendo a far nascere nuovi impieghi nella ristorazione e nell’accoglienza. Un successo straordinario, quasi magico, quello che sognava per le tribù di collina la principessa madre Mae Fah Luang, visionaria come l’uomo del caffè. A pochi chilometri dai pendii risorti è la sua dimora, la villa reale di Doi Tung, insolito incrocio fra una tipica casa thailandese e uno chalet svizzero, circondata da un maestoso giardino botanico dove l’azalea più piccola è alta due metri e le orchideee sono così invitanti per i colori e la carnosità dei petali, che vorresti mangiarle.
Non appetito ma sorpresa, suscita invece nei dintorni di Chiang Rai la Baan Dam, in italiano “la Casa nera”: l’altra parte scura di questa storia, che ben si accoppia con il caffè delle terre di confine. Si tratta di un insieme di costruzioni in cemento, legno, terracotta e vetro, sparse in un vasto giardino come dependance museali e addobbate con pitture, murales, sculture, oggetti in oro e argento, ma soprattutto ossa e pelli di animali tra gufi, scimmie, serpenti e corna di bufalo portafortuna. Manufatti che l’artista Thawan Duchanee, scomparso tre anni fa, raccolse in ogni parte della Thailandia e del mondo, realizzando nel tempo una vera e propria casa-museo di arte e tradizioni popolari dove trovava ispirazione per la sua arte e la sua tecnica, tese a rappresentare il Buddismo e la sua percezione nel contesto contemporaneo. E forse in questo suo creare, visionario e umano, si nasconde un pizzico di genialità italiana: Thawan frequentò a Bangkok la Silpakorn university di cui era rettore l’architetto italiano Corrado Feroci, artefice della formazione di schiere di artisti thailandesi, le cui statue sparse nella capitale e in altri centri della nazione sono diventati punti di riferimento dell’arte thai.
C’è ancora del nero accanto alla Baan Dam. È il caffè forte e aromatico della premiata caffetteria Nanglae Coffee House, una squadra di giovani che con larghi sorrisi serve il prodotto da loro stessi coltivato nella loro tenuta di 21 ettari. Anche per loro, grazie al profondo nero dei chicchi attecchiti con generosità in questa parte del mondo, è cambiata la vita.
Colpo di scena a pochi chilometri a sud dalla “Casa nera”. Il nero svanisce e appare il bianco polare del moderno tempio buddista di Wat Rong Khun – sicuramente il più stravagante degli oltre 33mila templi del Paese – che spunta come un iceberg a lato della strada. Migliaia di frammenti di specchi incastonati sulla sua superficie sembrano catturare e riflettere tutta la luce del giorno trasformandolo in una scintillante attrazione, a metà tra un castello magico e una macchina del tempo. A firmare quest’altra insolita costruzione, aperta al pubblico da alcuni anni, è il pittore Chalermchai Kositpipat che ha deciso per il suo tempio una vita straordinaria. Il progetto, non ultimato, prevede infatti altre strutture tra cui una sala per la meditazione e un monastero, che non saranno pronte prima di una quarantina d’anni. A quel tempo Chalermchai non ci sarà più visto che oggi ha 62 anni, ma l’artista da buon buddista non si agita. Ha già trovato le persone che continueranno la sua opera. Panachai Phisailert sorseggia il caffè e sorride, in questo angolo di mondo: il tempo che passa non fa paura, si progetta il futuro con una visione lunga, che trasforma il nero in bianco e viceversa. Non c’è bisogno di oppio, basta solo crederci.