di Viviano Domenici
La triste vicenda dei boscimani del Botswana relegati in campi di raccolta per non disturbare i turisti
Il deserto del Kalahari, in Botswana, può raccontare storie ben diverse da quelle patinate dei dépliant turistici. Prima fra tutte quella del giorno in cui tra gli sterpi della savana comparve un cartello su cui era disegnata la sagoma di un boscimano in atto di scoccare una freccia. La figura era barrata da una X rossa, come quella del segnale stradale di divieto di fermata. Sotto c’era scritto «Divieto di caccia e raccolta piante».
Un bel problema per i boscimani che vivevano in quell’area da alcune migliaia di anni cacciando animali di piccola taglia e raccogliendo tuberi.
L’acqua è sempre stata poca, e per dissetarsi spremono radici o conservano quella che trovano nelle rare pozzanghere, chiudendola in gusci di uova di struzzo che poi nascondono nelle cavità degli alberi per i tempi più difficili. Il governo aveva deciso che i boscimani erano «ostacoli naturali» da eliminare perché coi loro furtarelli di qualche animale disturbavano gli allevatori, che nel frattempo avevano sbarrato la savana con interminabili reti metalliche alte anche quattro metri, per interrompere le rotte migratorie degli animali selvatici che portavano malattie nei grandi allevamenti. Fu così che i boscimani, oltre a non avere più a disposizione le tradizionali risorse della caccia e della raccolta piante, dimenticarono persino come erano fatti i grandi animali, che non arrivarono più nei loro territori di sempre. Ma gli allevatori erano più tranquilli.
Le cose peggiorarono quando si scoprì che quel deserto era una vera miniera d’oro sia per i minerali preziosi nascosti nel sottosuolo sia per gli animali selvatici che attirano turisti con parecchi dollari in tasca. A quel punto, i boscimani diventarono ancora più ingombranti: quando avevano sete andavano persino a bere nelle pozze d’acqua che il governo provvedeva a rifornire per dissetare gli animali attira-turisti; ma non per i boscimani. Che infatti furono «invitati» a lasciare i loro territori ancestrali e riuniti in due grandi «campi di raccolta» dove stanno tuttora, ma da cui ogni tanto qualcuno scappa per tornare nella savana, dove però, se colto sul fatto – cioè a bere –, può essere arrestato, torturato o anche ucciso. Questo è stato ripetutamente denunciato da Survival International e pubblicato anche in Italia, ma le notizie non hanno suscitato la minima reazione. Evidentemente, anche per gran parte del pubblico nostrano quelle pozze d’acqua sono per gli animali, non per gli uomini.
Quando erano ancora liberi di vivere nella savana, incontrai una trentina di boscimani accampati sotto una grande acacia. Erano coperti di stracci e in cattive condizioni, pronti a elemosinare qualcosa da mangiare. Un ragazzo si mise in posa per farsi fotografare, vestito con una pelle di antilope e con arco e frecce in mano – come il cacciatore di un tempo –, ma sotto la pelle annodata sulle spalle aveva una maglietta con l’immagine di Topolino, identica a quella di mia figlia.
Un uomo disegnò per me alcuni animali da vero naturalista e quando chiesi di disegnare una giraffa rimase a lungo pensoso, poi fece uno sgorbio. «Non le ha mai viste, non ne arrivano più da queste parti», spiegò l’interprete. Al tramonto, il freddo spinse tutti attorno a un falò, e quando il cielo si riempì di stelle intonarono una nenia tristissima: «Mamma, mamma, comprami Apollo Eleven, la stella di ferro che porta gli uomini sulla Luna. Mamma, mamma…». Sempre uguale, fino a notte fonda.
Poi s’addormentarono sulla sabbia gelida, sognando un’altra vita.