di David Bellatalla | Foto di Sandra Zagolin
Viaggio trai i Tsaatan, la più remota comunità di nomadi delle steppe mongole raccontata da un grande antropologo e da una fotografa doc
Anche l’ultima scorta di batterie al litio è terminata. La mia Nikon funziona solo con lo scatto manuale, tempo e diaframma sono a discrezione della mia sensibilità. Persino i pannelli solari per ricaricare le batterie della videocamera sono andati. La batteria per motocicletta si è esaurita nel mese di gennaio quando il termometro era sceso oltre i –50 °C. Siamo a metà febbraio e il freddo non è solo pungente, fa male, si sente nelle ossa, nelle giunture; migliaia di invisibili aghi sembrano perforare la pelle del viso e la testa è perennemente dolente, tormentata dall’interminabile gelo. Siamo in Mongolia, nell’estrema propaggine settentrionale della regione di Huvsgol, il territorio montuoso dei monti Sayan, un’area difficilmente accessibile meglio conosciuta come taiga siberiana. Stiamo terminando le riprese in vista della preparazione di un documentario sugli Tsaatan, gli uomini renna della Mongolia. La comunità nomade della taiga conta duecentoventidue anime, e vive quasi esclusivamente delle proprie renne. L’unico collegamento con il resto del mondo è il villaggio di Tsagaan Nuur, a tre/quattro giorni di cavallo dai campi nomadi. Abbiamo iniziato il lavoro di ricerca anni fa e siamo certi di aver raccolto ottimo materiale, ma soprattutto siamo consapevoli di aver vissuto un’esperienza indimenticabile che, nel mio caso, cambierà il corso della mia vita.
Sono passati diversi anni da quando annotavo così sul mio quaderno durante la produzione del documentario Tsaatan: gli uomini renna della taiga. E l’avventura nella taiga mi ha portato a vivere qui in Mongolia; proprio oggi apro la porta di casa a Sandra Zagolin, fotografa padovana (autrice delle immagini di queste pagine) appena sbarcata a Ulan Bator con la sua attrezzatura fotografica, tanta voglia di fare e grande entusiasmo. Davanti a un caffé iniziamo a parlare. Le domande rivelano la sua passione per la fotografia e l’avventura. La ricerca dello «scatto immortale», la voglia di mettersi in gioco in situazioni inconsuete, in ambienti selvaggi e suggestivi ma soprattutto il desiderio dell’incontro con altri popoli e altre culture.
Inevitabilmente devo raccontare come sono finito lassù, nella taiga, in quel luogo sperduto, difficile da trovare persino sulle mappe. Dopo aver svolto le mie ricerche con la popolazione degli Aghin-Buriati volevo avvicinare gli Tsaatan, per iniziare uno studio comparato sul nomadismo in Mongolia. L’etnografo Badankhatan era la porta d’accesso e il passepartout per iniziare questa nuova avventura. L’amico accademico Bhira aveva preparato l’incontro presso il suo ufficio in piazza Sukhabator. La segretaria annuncia l’arrivo del famoso etnografo. Rigorosamente vestito con abito tradizionale, un elegante deel grigio perla, ampia cintura di pelle con grandi borchie in argento finemente lavorate, stivali lustri, libri sottobraccio e soprattutto un volto sereno, incorniciato da lunghissimi capelli bianchi e l’inconfondibile barba bianca pettinata e curata. Sapevo di essere tra i primi occidentali ad avventurarmi da quelle parti per svolgere ricerche antropologiche e oggi, seduto nel mio studio davanti a Sandra, mi sento il Badankhatan della situazione. Raggiungere i campi nomadi degli Tsaatan non è uno scherzo. Bisogna prepararsi a un viaggio lungo, stancante, difficile. Ricordo il giornalista Federico Pistone in occasione del nostro viaggio nel 1999, che dopo 12 ore di jeep, appena arrivati nel piccolo villaggio di Tsagaan Nuur, scende dall’auto e si inginocchia, si guarda attorno, dopodichè appoggia la fronte e i palmi delle mani a terra in una sorta di genuflessione buddhista dicendo: «Siamo arrivati, sono salvo, non tornerò mai più in questo posto». Non immaginava che ci fossero ancora tre giornate a cavallo, su impervi sentieri, attraverso guadi insidiosi e perennemente circondati da insopportabili e affamati tafani, prima di raggiungere il campo di Gombo, nella comunità della Zuun Taigh.
Qui i nomi cambiano, nessuno usa il termine Tsaatan, «uomini-renna» in lingua mongola, qui la lingua è un dialetto tuvino, un idioma del gruppo turco-altaico. I nomi con cui queste comunità del Sayan si identificano sono ben altri: Soyot, Dukha, Taighen Uriankhai, Taighnà,Tahiti Humùs; sono i nomi dei clan degli antenati di quelle popolazioni che solo dopo il 1956 vennero riconosciute dal governo della Mongolia come minoranza etnica. L’annessione alla Mongolia di quest’area geografica russa dei monti Sayan, strappata alla regione di Uriankhai (oggi Repubblica di Tuva, una delle 22 repubbliche della Federazione russa), allora voluta e sottoscritta dalle autorità sovietiche, faceva parte del programma di sedentarizzazione, i famigerati negdel, le cooperative di stato che promettevano sviluppo e miglioramenti economici su tutto il territorio abitato dai nomadi della Mongolia. Gli Tsaatan sono stati per decenni oppressi dalle autorità nazionali e costretti a seguire i «programmi riformisti» di sedentarizzazione. Nel 1972 venne aperta la pescheria di stato nel villaggio di Tsagaan Nuur con la conseguente smobilitazione degli uomini dai territori della taiga verso il piccolo villaggio per svolgere lavori e compiti che nulla avevano a che vedere con la loro cultura nomade. Nel 1979 vennero introdotte due ulteriori iniziative: il taglio sistematico delle corna delle loro renne, destinate al mercato coreano e cinese, e l’apertura della caccia indiscriminata a cervi, ermellini e renne selvatiche per soddisfare la richiesta del Cremlino. Le disastrose conseguenze di questi programmi sono ancora oggi sotto i nostri occhi: nei territori della taiga sono quasi completamente scomparsi questi animali.
Nonostante il malcontento manifestato dagli Tsaatan, bisognerà attendere il 1985 per una prima risoluzione governativa della situazione e infine il 1990 con la chiusura ufficiale della pescheria e la regolamentazione della caccia. Racconto a Sandra i retroscena e le disavventure dei nomadi e di come la storia recente della Mongolia abbia profondamente segnato queste popolazioni, la loro vita, la loro cultura. Lei registra, annota, chiede, poi ricomincia. A volte vedo il suo sguardo perdersi nel vuoto, sembra voler cercare un punto fermo, un esplicito chiarimento per mettere a fuoco quello a cui andrà incontro. Quando a cavallo per la prima volta mi sono avventurato nella taiga, sotto la pressante vigilanza di un funzionario del partito che a malavoglia doveva seguire i «due stranieri armati di macchine fotografiche e videocamera», non avevo idea di cosa mi sarebbe accaduto, non immaginavo neppure lontanamente di dover affrontare disagi senza fine.
Cavalcare nella taiga significa dover affrontare ogni tipo di difficoltà; a cominciare dalla sella, rigorosamente mongola cioè in legno con finiture in argento massiccio che massacrano cosce e fondoschiena. Salire e scendere attraverso boschi di conifere disseminati di tronchi caduti e putrescenti, evitare insidiosissime fosse ricoperte di muschio, dovute al permafrost che caratterizza l’intera regione e infine doversi inventare il sentiero da seguire. Gestire il destriero in modo da evitare cadute, scivoloni e soprattutto tenere il cavallo a debita distanza dagli alberi, dove certamente il terreno è più stabile ma dove il ginocchio potrebbe finire contro la corteccia dell’albero poiché il nostro animale cerca anche lui il suo miglior passaggio. Senza dimenticare i rami, sotto cui il cavallo passa agevolmente, ma noi no. Ci sono poi i guadi, apparentemente facili da superare, ma dobbiamo fare i conti con il dislivello delle sponde e del fondale dal quale il ronzino per uscirne indenne, salta. I pianori ricoperti d’erba, che in estate cresce copiosa, ricoprono acquitrini simili a sabbie mobili. E infine i tafani, esseri infernali, ce ne sono a milioni, che non ci danno pace e tormentano anche il nostro cavallo: ogni trenta minuti dobbiamo abbatterli con vigorosi e solleciti colpi di cappello, dal collo e dalle zampe posteriori.
Gli Tsaatan sono nomadi ma, come voglio ricordare a Sandra, i nomadi non vanno in giro a cercare pascoli freschi per i loro armenti, come troppo spesso molti di noi sono portati a pensare. Al contrario seguono itinerari ciclici annuali dove ogni singolo campo rappresenta il luogo di incontro con gli spiriti dei propri antenati, con il sovrannaturale; il ciclo della vita si ripete, respira, commuove. Il modello sedentario ha sempre dipinto a tinte fosche i popoli nomadi, discreditando la loro cultura, i loro costumi e la loro civiltà, facendo di loro l’impersonificazione del diverso, della minaccia, dell’ostile. Quando abbiamo raggiunto il campo nomade, nove tende in tutto, le loro urtz (in tutto e per tutto simili ai tepee, le tende coniche in pelle degli indiani del Nordamerica) ci siamo sitemati in una nuova urtz preparata appositamente per noi. La prima sensazione è stata quella di essere stato catapultato su un altro pianeta. La seconda, quella di essere stato accettato, di essere un ospite gradito. Solamente la presenza del funzionario pareva disturbare la serenità del luogo. Persino i tafani erano spariti. Le nostre giornate trascorrevano in modo naturale, noi imparando da loro e loro da noi. L’utilizzo di piante, bacche e radici per curare o alleviare dolori, come montare una tenda da quota in goretex e sistemarvi al meglio zaino, materassino e sacco a pelo. Quali alberi tagliare per la preparazione del fuoco, come gestire le renne utilizzando il capobranco, come preparare un caffè con la moka e come usare uno zoom per fare una fotografia.
Sandra è di nuovo all’attacco. Mi chiede del programma di aiuti umanitari che ha salvato il popolo delle renne dall’estinzione. Mi alzo e dalla grande libreria recupero un quaderno e una lettera incellofanata. Gliela mostro e leggo. È iniziata così l’avventura SOS Taiganà, un progetto umanitario con la Croce Rossa mongola per salvare il popolo degli Tsaatan. Con aiuti arrivati da enti pubblici e privati, ma soprattutto da privati cittadini, in otto anni è stata debellata un’epidemia di brucellosi, che stava decimando le renne e purtroppo aveva già causato la morte di alcuni individui. Quando il programma è terminato e il popolo delle renne aveva recuperato la propria autosufficienza e la propria stabilità, l’accoglienza, la festa, i sorrisi dei loro bambini mi hanno fatto fare il grande passo. Sandra sorride, è commossa. Sono certo che sarà accolta come un’amica, e che i suoi fantastici scatti aiuteranno anche lei, perché dopo un’esperienza nella taiga, ognuno di noi lascia quelle terre par fare ritorno alla propria casa, ma la taiga non lascerà mai i nostri cuori.