di Gianluca Biscalchin | Disegni di Gianluca Biscalchin
La capitale meneghina non è solo il primo centro finanziario. Qui sono nate le grandi case editrici, uno dei quotidiani più diffusi, ma soprattutto è stata cenacolo di poeti e scrittori. Tanto che l’Unesco l’ha dichiarata città creativa per la letteratura
Firenze si è assicurata nel tempo la nicchia dei risciacquatori in Arno, degli ermetici pavidi e dei poeti inglesi in trasferta creativa. Roma ha accolto nel sue ventre caldo dispute letterarie, premi Strega, i sarcasmi del Belli e gli eccessi di D’Annunzio. Torino ha cullato il clan Einaudi, l’impegno gobettiano e i suicidi letterari. Napoli ha fatto storia a sé, come sempre, con l’immanenza di Croce.
La Sicilia ha covato il verismo di Verga e l’illuminismo di Sciascia. E Milano? Assecondando il suo stile impastato di schiva laboriosità e produttività giansenista, la città ha fatto finta di rimanere all’ombra nel grande circo equestre della letteratura.
Milano è fatta così. Consente di lasciarsi ridurre in triti stereotipi per poi fare la parte del leone quando si tratta di danè. Il fatto è che la città è stata, ed è tuttora, la fabbrica della letteratura italiana. Le grandi case editrici sono nate qui: Sonzogno, Hoepli, Treves prima e poi Bompiani, Garzanti, Longanesi, Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli. Qui hanno lavorato grandi demiurghi della cultura come Umberto Eco, qui sono partiti i telegiornali della Rai (in corso Sempione 27), qui risiede il primo quotidiano d’Italia, Il Corriere della Sera. In via Solferino 28 (1) hanno trovato casa i grandi nomi della letteratura, da Eugenio Montale (1886-1981) a Dino Buzzati (1906-1972) a Guido Piovene (1907-1974). Qui si celebra dal 1923 il celebre Premio Bagutta inventato da Riccardo Bacchelli (in via Bagutta 14) (2).
Ma Milano è una città ubiqua. Difficile da etichettare. Nelle sue pieghe profonde, nelle sue periferie e nella case borghesi, nel suo unico genius loci che mischia Brianza ed Europa, risotto giallo e avanguardia, si nasconde un fertile, inaspettato terreno poetico. Nutrito di fertilizzante moderno, urbano, eclettico, dal grasso del substrato vernacolare. Lo si capisce bene nel racconto filmato di Luchino Visconti (1906-1976), narratore di narratori, Rocco e i suoi fratelli, tra case di ringhiera, Idroscalo e la palestra di via Bellezza (3) (oggi sede dell’ArciBellezza). Il milanesissimo regista ha segnato una mappa simbolica che poi è diventata materia viva per chi sia disposto a trovare la specificità della città ambrosiana. D‘altra parte il film si ispira ai racconti Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori (1923-1993), poeta della periferia che si inserisce nel filone grottesco-tragico-barocco di una parte degli scrittori milanesi. Dagli Scapigliati, che vivevano nella zona allora bohémien tra corso Monforte (4) e via Vivaio, al gigantesco Carlo Emilio Gadda (1893-1973), nato nella nobile via Manzoni 5 (5). Anche se l’ingegnere era fatalmente attratto da Roma (come Caravaggio), dedicò alla sua città un capolavoro come L’Adalgisa. È in quelle pagine che si riversa l’amore folle, l’accondiscendenza, la ferocia che Gadda riserva alla sua Milano. Ed è lì che si può trovare l’anima di una città laboriosa e bigotta, generosa e fremente, tradizionale e ciarliera. Le donne borghesi soffrono d’amore per i pulitori di parquet e per i garzoni dei macellai, mentre i mariti operosi si iscrivono al Filo, il Circolo filologico milanese, la più antica associazione culturale in città. Si trova ancora in via Clerici 10 (6) ed è perfetto per chi voglia fare del pellegrinaggio gaddiano. L’altro filone milanese è quello illuminista-giansenista.
I nomi sono quelli dei fratelli Verri (con la loro rivista Il Caffè) e Cesare Beccaria (1738-1794)con il suo fondamentale Dei delitti e delle pene, contro la pena di morte. I tre si riunivano all’Accademia dei Pugni in contrada del Monte (oggi via Monte Napoleone) (7). Gli illuministi lombardi si possono vedere ancora oggi, di profilo, nei medaglioni che adornano il Palazzo del marchese Beccaria in via Brera 6 (8). Tra loro Giuseppe Parini (1729-1799), poeta ormai ricordato quasi solo per il celebre liceo a lui dedicato, ma ai tempi star delle lettere cittadine. Si può salutarlo in forma di statua nella centralissima piazza Cordusio (9) o passare sotto palazzo Serbelloni, in corso Venezia 16 (10), dove fece il precettore.
Un altro ben più grande poeta, il marchigiano Leopardi, non amava la città: “Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, perché Milano è veramente insociale”. Chi invece l’amò fu Francesco Petrarca (1304-1374) che arrivò qui per questioni lavorative legate ai Visconti e soggiornando in via Lanzone 53 (11), dove oggi c’è il collegio della Congregazione delle Orsoline di S. Carlo, e S. Ambrogio e dal 1353 al 1361 alla Cascina Linterno, nel quartiere di Baggio (via Fratelli Zoia 194) ora restaurata anche con il sostegno del Touring: “Ecco ho trovato un tranquillo campestre soggiorno in mezzo alla città e una città in mezzo alla campagna”
Pare sia passato a trovarlo, forse per l’aperitivo, anche Boccaccio. Il poetissimo fa parte dell’esercito di letterati attratti delle possibilità di impiego. Se gli artisti sceglievano Roma o Firenze per nutrire l’anima, Milano è la destinazione obbligata per riempirsi lo stomaco. Dai siciliani, e cognati, Salvatore Quasimodo (1901-1968) che insegnava letteratura italiana al Conservatorio Verdi ed Elio Vittorini (1908-1966) all’inseparabile amico genovese Montale che la definiva: «un enorme conglomerato di eremiti».
Quando si ritrovavano per un caffè si contavano due premi Nobel su tre! Altri ospiti eccellenti furono Stendhal (al secolo Henri Beyle 1783-1842), in corso Venezia, palazzo Bovaro, che amò tanto Milano da definirla «la città più bella del mondo» e chiese di mettere sulla sua lapide: «Arrigo Beyle, milanese» (era pazzo del quartiere di Porta Nuova (12)!). Passò da qui anche Ernest Hemingway (1899-1961). Il volontario barelliere, poi premio Nobel, passò tre mesi di convalescenza nel 1918 in via Armorari 4 angolo via Cesare Cantù (13), nel palazzo allora adibito a ospedale dalla Croce Rossa statunitense. Si trovava dietro al Duomo, fulcro quasi paesano di questa che sembra essere la più piccola metropoli del mondo. È nella piazza centrale della città che un certo Tramaglino vide “l’ottava meraviglia del mondo”: «Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato vide quella gran macchina del Duomo (14) sola sul piano, come se, non di mezzo a una città ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai». Sono le parole del più grande tra i milanesi, il conte Alessandro Manzoni (1785-1873).
I Promessi Sposi sono la guida più suggestiva di una città ormai perduta: la zona dove sorgeva il Lazzaretto, di cui rimangono un breve tratto di mura e la chiesa di S. Carlo, fino a giungere in piazza S. Babila e in piazza S. Fedele. La casa del conte è vicina, in via Morone 1 (15), oggi si può visitare. Ma per capire come viveva la famiglia (Alessandro era nipote di Cesare Beccaria) bisogna leggere La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg, un ottimo modo per capire com’era la Milano dell’Ottocento. Un’altra via da seguire è quella segnata da Carlo Porta (1775-1821), il maggior poeta dialettale milanese. La sua ossessione era il Verziere, l’antico mercato della verdura, tra piazza Fontana, largo Augusto e piazza S. Stefano (16), dove si aggirava la protagonista della divertentissima La Ninetta del Verzee. È un mondo di poveri cristi che il poeta definiva «una scuola di lingua» per la miscellanea di parlate, di personaggi, di humor grottesco. Non è un caso che Manzoni e Porta siano milanesi. C’è in loco una peculiare forma di umorismo e di ossessione per la lingua, che si nutre degli umori del popolo come dei tic della city. Ed è un fiume sommerso, come l’Olona e il Lambro, che emerge con potenza in Gadda o in un altro milanesizzato come Alberto Arbasino (1930). Per non parlare poi dei poeti-cantanti come Gaber, Jannacci e tutta la congrega del bar Jamaica (17) in Brera. Un ribollio di ironia, grottesco, popolano, colto e sociale che esplode nell’arte di Franca Rame (1929-2013) e Dario Fo (1926-2016), attivissimi con la loro rivoluzione teatrale nella Palazzina Liberty di largo Marinai d’Italia (18). L’impegno civile è un altro dei grandi filoni della letteratura nata qui. Dagli umili manzoniani a quelli testoriani. Ma umili sono anche i poeti. E le poetesse, come Ada Negri, Antonia Pozzi e soprattutto Alda Merini (1931-2009).
La poetessa dei Navigli, dalla vita disperata e passionale, è forse quella che meglio racconta l’anima profonda della città che sente parte di se stessa: «due sponde che non si risolvono (insoluta io stessa per la vita), come le rive del Naviglio». Ora la sua casa, al 47 di Ripa di Porta Ticinese (19), è stata smontata e ricostruita nello spazio a lei dedicato in via Magolfa 32, ex tabaccheria comunale. Riuscendo a farsi largo tra i tamarri dell’happy hour si può, in certe notti d’inverno, quando si ha la fortuna di intravedere l’ormai scomparsa nebbia, quello che per la Merini era fonte di poesia. Un altro cantore dei Navigli è un poeta che bisogna a tutti i costi riscoprire: Delio Tessa (1886-1939). Anche lui, erede di Porta, mischia ironia e nostalgia e sintetizza la sua poetica nel titolo della sua unica raccolta pubblicata in vita
L'è el dì di mort, alegher! (È il giorno dei morti, allegri!). È forse il più grande poeta dialettale del Novecento, e anche lui ha una fatale attrazione per gli ultimi, come le prostitute e i ladri di piazza Vetra (20). Ma Milano è sempre l’opposto di se stessa. Se Tessa era un antifascista convinto, nostalgico, delicatamente ironico e mite, un altro poeta esplodeva ai primi del Novecento: Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) residente in via Senato 2 (21). Nato ad Alessandria d’Egitto, trovò in Milano la sua fucina di luci, industria, energia, vigore, forza. Qui trovò il trampolino per lanciare la sua rivoluzione futurista: «distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie» e cantare «le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa glorificare la guerra — sola igiene del mondo —, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del libertari, le belle idee per cui si muore”. Roba pesante. Basta pensare che a Milano nacque, insieme al futurismo, anche il fascismo di Benito Mussolini. Fu il duce a far coprire quei navigli che avevano incantato Stendhal e inorridito, per la puzza, Manzoni. Sono le arterie della città, ormai sommerse, ma che forse torneranno alla luce. Se così fosse ne sarebbe entusiasta Bonvesin de la Riva (1240-1315) che nacque nei pressi della ripa, quella della vecchia Porta Ticinese (22). D’altra parte si deve al poeta medievale la prima dichiarazione d’amore per la città: De magnalibus urbis Mediolani, le meraviglie di Milano del 1288.
Si tratta di un panegirico teso a esaltare la forza, la modernità e la ricchezza della città viscontea (poco è cambiato!). Ma sono le sue opere in volgare, una sorta di koinè lombarda, che lo rendono il capostipite di tutti gli scrittori meneghini. Se non si considera l’opera in latino di due padri della chiesa: Agostino e Ambrogio, il primo di passaggio a Milano dove inizia la sua conversione grazie al secondo. Il più famoso vescovo (e patrono) della città, ancora amatissimo, ha dato il nome alla basilica citata da Giuseppe Giusti nella sua poesia più famosa: Sant’Ambrogio (23), appunto. «girellando una mattina/ capito in Sant’Ambrogio di Milano/ in quello vecchio, là, fuori di mano. M’era compagno il figlio giovinetto/ d’un di que’ capi un po’ pericolosi/ di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto/ove si tratta di promessi sposi...».
E il cerchio si chiude. Amata e odiata, dai milanesi e dagli immigrati, la città continua a essere materia viva per la letteratura contemporanea, da Andrea De Carlo a Andrea Pinketts, da Aldo Nove agli scomparsi Giovanni Raboni e Giorgio Scerbanenco. Per scoprirne il segreto bisogna seguire il consiglio di un “immigrato” eccellente, Guido Piovene: «Per capire Milano bisogna tuffarvisi dentro. Tuffarvisi, non guardarla come un’opera d’arte».