Una foto, una storia. C’era una volta Beirut

La capitale libanese negli ultimi decenni è stata sinonimo di terrore e caos. Eppure prima della guerra civile il Paese era la Svizzera d’Oriente. E ora?

La cameretta dei figli in selvaggio disordine? «Sembra Beirut». L’autostrada di Palermo il giorno della strage di Capaci? «Sembra Beirut». Una qualunque periferia scalcagnata e decrepita? «Sembra Beirut». Un giardino un po’ troppo incolto? «Sembra Beirut». C’è stato un periodo abbastanza recente, diciamo gli anni Ottanta e Novanta, in cui l’espressione «sembra Beirut» era diventata sinonimo di caos all’ennesima potenza. Tanto ripetuta da entrare, anche se non certificato da nessuna accademia, nell’uso quotidiano della lingua italiana. Un po’ come quando, oltre un secolo fa, divenne di uso comune la parola Ambaradan che – dice la Treccani – sta a significare «situazione confusa e caotica, baraonda». Una parola la cui etimologia deriva da «un massiccio montuoso dell’Etiopia presso il quale, nel 1936, ebbe luogo un’importante battaglia della guerra italo-etiopica conclusasi con la vittoria italiana». Nel caso di Beirut i semiologi si sono affannati a spiegare che è stata tutta colpa dell’influenza dei mezzi di comunicazione di massa. Perché la guerra civile del Libano è stata la prima guerra in diretta, o forse in leggera differita. Non passava giorno che non saltasse un’autobomba, i militari occidentali furono coinvolti per portare la pace con in testa il casco blu dell’Onu, e non passava giorno in cui il Libano non finisse nei titoli dei telegiornali. Dopo ci sono state altre guerre, altre città simbolo: Sarajevo, Bagdhad, Kabul, oggi Aleppo, ma tutte sembrano ancora Beirut. Eppure chi ha conosciuto il Libano e la sua capitale prima della guerra civile lo raccontava come un «Paese di miele e di latte, una città del lusso e della voluttà». Dall’indipendenza nel novembre 1943 allo scoppio del conflitto, nel 1975, è stata l’età dell’oro della città, dove fortuna calamitava fortuna, ricchezza chiamava ricchezza. In quegli anni, quelli a cui si riferisce questa foto del centro cittadino, Beirut e il Libano intero erano la Svizzera d’Oriente. La capitale era una metropoli regionale cosmopolita, un luogo come nessun altro in Medioriente. In mancanza di meglio, Beirut rappresentava l’Occidente più vicino e accessibile. Un piede di qua, uno di là. Una città dove i capitali arabi si incontravano con quelli francesi, si mischiavano con l’arte di far affari dei libanesi, l’ingegnosità dei mercanti levantini, la liberalità dei costumi. A ben pensarci gli anni della prosperità erano un vero miracolo per un Paese praticamente senza risorse naturali. Un miracolo che metteva d’accordo tutti. Cristiani maroniti, ortodossi armeni, cattolici; e poi sunniti, sciiti, drusi, c’era posto per tutto e per tutti. Ma era una soluzione assai imperfetta; e così venne giù tutto. E allora ecco quell’associazione ricorrente: «Sembra Beirut», il caos. Oggi le cose, finalmente, sono cambiate. Il lungomare, la Corniche, è stato sistemato e pullula di vita. Il centro storico rimesso a nuovo con un progetto discusso, Solidere, il tentativo di far rivivere la Beirut ante 1975. Per le strette vie di Harma passa il meglio delle cultura mediorentale. A Dahiya, invece, un intero quartiere vive nell’universo parallelo di Hezbollah. Tutto è risolto? Per nulla. I campi profughi palestinesi sono ancora lì, milioni di rifugiati siriani vivono in accampamenti di plastica nella valle della Bequa’. La politica nazionale prosegue instabile. Così in Libano la precarietà è stata elevata a forma di identità. Eppure se uno pensa a una città mediterranea cosmopolita e effervescente non può far altro che pensare: «Sembra Beirut».

Fotografia dell'Archivio Tci