di Barbara Gallucci | Foto di Marco Pavan
Mappare tutta l’arte del pianeta. Imago Mundi: l’ultimo visionario progetto di Luciano Benetton
Secondo la Treccani un visionario è colui che ha delle visioni, delle apparizioni soprannaturali o delle allucinazioni visive. Nell’accezione estesa, invece, l’enciclopedia declina il termine con riferimento ai registi cinematografici particolarmente dotati della capacità di creare situazioni e immagini fantastiche, irreali e di forte impatto visivo. Alla Fellini per intenderci. È possibile considerare visionario un uomo che, partendo dalla provincia di Treviso, ha conquistato il mondo con dei maglioncini colorati? Forse ancora non regge il confronto con il regista de La dolce vita in effetti. Ma se poi lo stesso uomo istituisce una fondazione per la tutela del paesaggio quando ancora nessuno pensava che avesse bisogno di tutela? E se poi crea una struttura per permettere a giovani di tutto il pianeta di dare libero sfogo alle proprie idee creative senza problemi di budget in campi come il cinema, il design e la comunicazione? E se ancora decide di mappare tutta l’arte contemporanea del mondo coinvolgendo 26mila artisti internazionali dall’Alaska all’Australia facendo dialogare coreani del Nord e del Sud, israeliani e palestinesi, serbi e croati?
«Migliorare l’ambiente in cui si vive sembra banale, ma è una strada obbligata», da Treviso al mondo intero, «l’importante è mettere insieme la parte migliore delle persone». Un’immagine fantastica che sembra però fantascientifica. Tra visionarietà e follia il limite semantico è sottile, si sa, ma a parlare con Luciano Benetton, capostipite dell’omonino gruppo, tutto prende una forma lineare e persino ovvia, almeno idealmente. Lo incontriamo in un pomeriggio invernale nel suo gioiellino, Fabrica, la grande struttura progettata dall’architetto giapponese Tadao Ando nella campagna trevigiana per ospitare ragazzi con delle idee. L’imprenditore, che dal 2009 aveva deciso di non occuparsi più delle aziende di famiglia, è tornato in azione e sta lavorando sul futuro della sua Benetton con un altro visionario, il fotografo Oliviero Toscani. Ma è di Imago Mundi che vuole parlare, il progetto più complesso al quale ha dedicato tempo e risorse negli ultimi anni. «Mi son fatto una domanda: è possibile fare una ricerca completa dell’arte nel mondo?». Bella domanda verrebbe da rispondergli, ma ci limitiamo a sgranare gli occhi quando comincia a dare i numeri: «In cinque anni abbiamo coinvolto 150 Paesi, 26mila artisti e più di cento curatori pubblicando cataloghi per ciascuno Stato preso in considerazione e organizzando mostre da Palermo a Shanghai». Parla circondato da alcune delle opere di questa mappatura creativa del globo. In apposite teche disegnate dal suo fidato architetto Tobia Scarpa, decine di opere tutte delle stesse dimensioni, 10x12 centimetri, colorano la stanza. A seconda di dove si punta lo sguardo si vola in Indonesia, Galles, Nuova Zelanda e Mongolia. Siamo costretti a rivolgere lo sguardo fuori, verso una cascina con tanto di pollaio all’aperto, per tornare a sapere dove siamo. Benetton lo sa benissimo dov’è e come ci è arrivato: «Ho sempre viaggiato molto, per piacere e per lavoro. Un giorno curiosavo nella galleria di Miguel Betancourt a Quito, in Ecuador. Mi piacevano le sue opere, ma non volevo comprarne una, stavo viaggiando... Gli ho chiesto un biglietto da visita e lui ha preso una piccola tela 10x12 cm e me l’ha dipinta seduta stante». La prima di una collezione immensa. «In questi anni siamo andati in giro per il mondo con Imago Mundi e io mi sto divertendo molto». E si vede. Gli brillano gli occhi quando ne parla e quando si passa a parlare di viaggi e delle prossime mete che ha in mente.
«Non è solo un progetto d’arte, ma il documento di un momento. A Sarajevo siamo riusciti a riunire artisti di sette Stati diversi che prima facevano parte della Iugoslavia. Si è creato un dialogo straordinario tra di loro. Lo stesso era successo per Israele e la Palestina con l’esposizione delle opere degli artisti del Mediterraneo. Magari i loro Paesi sono in guerra, ma collaborano e si confrontano serenamente». Là dove c’era United Colors of Benetton ora c’è United Nations of Benetton? «Ci siamo interessati al mondo, soprattutto quella parte di mondo in difficoltà, fin dagli anni Ottanta. Siamo consapevoli di non poter risolvere i problemi, ma riteniamo fondamentale tenere vive creatività ed emozioni. In fondo non è così difficile: basta considerare tutti sullo stesso piano, quello umano». Gli esordi in ambito culturale dell’imprenditore del Nordest, pur essendo più local, andavano nella stessa direzione. Nel 1987 creò la Fondazione Benetton Studi Ricerche. L’obiettivo era quello di svolgere attività di ricerca nel mondo del paesaggio e dello studio dei luoghi, nonché in quello della storia e civiltà del gioco. In poco tempo la fondazione diventa un punto di riferimento grazie alla biblioteca e all’archivio che contano circa 60mila volumi (comprese moltissime guide del Touring). Viene anche istituito il premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino che, nel corso delle diverse edizioni, è stato dedicato a luoghi reconditi o vicini, comunque misconosciuti, dai meleti del Kazakistan agli aranceti palermitani fino ai cactus di Lanzarote. Benetton viaggia sempre, ma non ha dimenticato la sua Treviso tanto che, lo scorso anno, ha avviato il progetto Treviso Urbs Picta per mappare e catalogare tutti gli affreschi, 476, sulle facciate degli edifici della città. La Fondazione ha pubblicato poi un libro con le immagini e testi per comprendere una tradizione lunga secoli cui si affianca una banca dati online e una app: passeggiando per la città con in mano il telefonino, grazie alla georeferenziazione degli edifici, compare una mappa con gli affreschi in base a soggetto, epoca e colori. Il nesso logico tra le opere degli artisti Sami di Imago Mundi, per fare un esempio, e il patrimonio locale sembra labile, ma non lo è perché è attraverso la conoscenza che si creano le connessioni mentali più stimolanti.
La sera ci ritroviamo ad ascoltare giovani pianisti interpretare ballate e rapsodie di Chopin e Brahms nella chiesa di S. Teonisto. Si festeggia la ricollocazione di 19 delle 22 opere pittoriche seicentesche che originariamente adornavano le pareti dell’edificio. Prima dei bombardamenti del 1944 furono rimosse e collocate in musei cittadini e non solo (uno si trova a palazzo Madama a Roma e non sembra che i senatori abbiano voglia di restituirlo), in attesa di un restauro della chiesa che non sembrava arrivare mai. Fino a quando, nel 2014, Benetton decise di finanziare l’impresa durata tre anni. Un intervento non semplice perché mancava il tetto e poi perché scavando per realizzare una tribuna mobile a scomparsa sono stati trovati i resti di epoca romana di un’abitazione. Strati di storia accumulata che rallentano i lavori, ma nel dicembre 2017 tutto è pronto e la città riconquista prima uno spazio e poi, lo scorso gennaio, anche le sue tele sulle quali indugiano gli sguardi mentre i pianisti proseguono nella loro performance. La visione sembra sempre più chiara e se il concetto «migliorare l’ambiente in cui si vive è banale, ma è una strada obbligata» fosse uno slogan politico saremmo pronti a dare il nostro voto a chi lo sostiene.
Anche a costo di andare in carcere. E infatti ci siamo andati. Già perché quando hai a disposizione 26mila opere è giusto farle vedere a più gente possibile. E quale luogo migliore di un enorme edificio dismesso da decenni e in pieno centro cittadino? «Le ex prigioni di Treviso sono state in funzione per circa un secolo, da metà Ottocento a metà Novecento e ora, grazie alla ristrutturazione e al restauro pensati da Tobia Scarpa, siamo pronti a riaprirle con una destinazione d’uso diversa ovviamente», racconta Benetton. Si cammina da una cella all’altra, da un corridoio all’infermeria, sempre con le sbarre alle piccole finestre. Le pareti bianche immacolate sono punteggiate da scritte e disegni affrescati talvolta inquietanti (nelle Celle punizioni non è facile varcare la soglia senza un brivido). Qui stanno per essere collocate alcune delle teche con le raccolte di opere 10x12, «Non vogliamo che questo luogo sia un museo, ma stiamo pensando a esposizioni tematiche con un unico denominatore comune, il viaggio. Tra le prime che mi vengono in mente il Sahara, con le opere dei Paesi che sono attraversati da quel deserto, oppure la Via della seta. La sede nuova di Imago Mundi, anzi la casa di Imago Mundi, deve essere uno spazio aperto, pieno di giovani che vedono, scoprono, viaggiano e creano». Quando il prossimo aprile le porte delle ex prigioni si apriranno ai cittadini per non richiudersi più alle loro spalle un nuovo tassello del mondo sognato da Benetton diventerà reale.
E intanto Imago Mundi prosegue il viaggio nella geografia dell’arte con nuove realtà da indagare, con giovani e meno giovani artisti da scovare, con opere da far conoscere, con dialoghi da comunicare. «È emozionante lavorare soprattutto in quei Paesi dove il mondo dell’arte è sommerso, dove non esiste mercato, dove non ci sono gallerie o musei a sostenere la creatività locale. In questi casi Imago Mundi rappresenta qualcosa di più che una semplice opportunità espositiva. Tra i prossimi progetti quello che unisce Hiroshima e Nagasaki, due città simbolo i cui artisti sono certo abbiano molto da raccontare. E poi per il 2019 stiamo lavorando con la Cina in occasione dei 70 anni della rivoluzione. In futuro faremo anche dei progetti tematici...». Benetton continuerebbe a parlare di idee e programmi all’infinito, ma il suo sodale Toscani ci interrompe, cerca il suo computer, forse folgorato da una nuova intuizione. Benetton, che di computer non ne ha mai avuto uno, gli offre scherzosamente il suo (inesistente). Le situazioni e immagini fantastiche non hanno sempre bisogno di tecnologia per diventare reali.