di Giuseppe Scaraffia
A 23 anni lo scrittore francese si trovò assai male nella capitale ceca: colpa di quell’odore di cetrioli sottaceto
Nella stanza più modesta di un povero albergo di Praga abitava un giovanotto profondamente infelice. Albert Camus, 23 anni, si sentiva a disagio non soltanto perché era solo, povero e senza conoscenti, ma per la duplice delusione che l’aveva esiliato in quel vicolo scuro. Erano partiti in tre, Albert, la giovane moglie Simone Hié e un amico. La parte più affascinante del viaggio nell’Europa centrale da tempo progettato consisteva in un lungo percorso in kayak. Ma presto uno spasimo di dolore aveva bloccato Camus mentre remava, ricordandogli che il medico, preoccupato per la sua tisi, gli aveva vietato ogni sforzo fisico. Da allora lo scrittore aveva dovuto rinunciare alla canoa per muoversi in treno, lasciando soli gli altri due. Come se non bastasse, a Salisburgo una lettera del dottore che riforniva la moglie morfinomane gli aveva rivelato che Simone lo tradiva. Avere deciso di divorziare non aveva però attenuato la gelosia che provava all’idea di doverla lasciare sola con l’amico.
Si sentiva insicuro, i pantaloni si sgualcivano e aveva perso un bottone della giacca. «Da più di un mese vivo come un semifolle nevrastenico e in questi giorni le cose si aggravano ancora!». Cercava di distrarsi visitando Praga. Gli piacevano il quartiere ebraico e le pietre scure del cimitero israelita. Aveva vagabondato tra le cupole d’oro delle chiese barocche, disturbato da quell’odore «pungente, asprigno [che] risvegliava in lui tutta l’angoscia di cui era capace». Era l’odore dei cetrioli sotto aceto che venivano venduti a ogni angolo di strada e che per lui sarebbe diventato l’odore di Praga. Una sera, cercando un’osteria a buon mercato, entrò in una cantina illuminata da luci rosse dove un cieco suonava l’armonica. Bevve la birra del posto scura e dolciastra, ma mangiò poco. Una sera aveva visto una strana scena: un piccolo gruppo di passanti riunito intorno a un morto, mentre un uomo danzava.
Il cattivo tempo e la febbre che non passava aumentavano la sua malinconia. Per contrastarla preparò un programma per ogni giorno della settimana. Perlustrò musei, chiese e chiostri, assaporando il loro sentore d’incenso e di grotta. Si smarrì nelle chiese sontuose «cercando di ritrovare una patria, ma uscendo più vuoto e disperato da quel tête-à-tête». Il cielo di rame nato dall’incontro del sole con la foschia sembrava essere sceso sugli altari dorati. Gli sembrava di capire il «mistero del genio barocco che riempiva Praga con i suoi ori e la sua magnificenza». Gli pareva che la grandiosità, il grottesco e il rito del barocco esprimessero il «romanticismo puerile dell’uomo che si difende contro i suoi demoni». Ogni sera raggiungeva il chiostro dei monaci cechi dove il tempo sembrava volare via più in fretta. O il silenzioso quartiere del Castello, poco distante dalle zone più animate della città. Era riuscito a seminare l’odore dei cetrioli, ma la quiete di quelle strade maestose lo opprimeva. Arrivato in Italia confessò: «A Praga, soffocavo tra i muri».