di Paolo Martini
I segreti del successo di Airbnb, tra dimensione familiare e senso di appartenenza
Anche l’azienda Airbnb, come Google e Facebook, è un po’ The Circle, il mondo a parte che Dave Eggers ha raccontato nel suo interessante romanzo distopico del 2013 (poi diventato un film con Tom Hanks). I 2.500 dipendenti fanno parte della comunità Airfamily, con tantissime attività organizzate insieme anche per il tempo libero, feste in maschera comprese. Il fondatore Brian Chesky ha selezionato uno per uno personalmente i primi 300 collaboratori, conosce quasi tutti gli altri e invia una dettagliata mail settimanale a ciascuno, rigorosamente, la notte di domenica. Il quartier generale (un’ex fabbrica di batterie, nel SoMa, quartiere di San Francisco) ha una ventina di sale riunioni che sono la replica esatta degli alloggi dei migliori host Airbnb in giro per il mondo, soprammobili e libri inclusi. Nei vari piani si trovano tante dispense e mini-cucine, dove servirsi anzitutto di caffè e bevande, tra cui la Redbnb, una Redbull aziendale a base di ibiscus, tè verde e yerba mate. Queste e altre curiose notizie si leggono nel primo libro sul fenomeno Airbnb, scritto da Leigh Gallagher, con chilometrico sottotitolo: come tre laureati hanno sconvolto l'industria alberghiera, facendo tanti soldi… e procurandosi altrettanti nemici (ed. italiana Egea, 216 pag., 19,90 euro). Il motto aziendale di Chesky è: «Creare un mondo in cui ovunque uno vada provi un senso d’appartenenza». E la giornalista economica americana Gallagher lo spiega con una citazione di Sebastian Junger, scrittore e film maker che ha conquistato in un baleno la notorietà con La tempesta perfetta. Di norma Junger viene considerato una sorta di nuovo Hemingway, ma nel caso di Airbnb viene tirato in ballo per via di un suo recente lavoro sui reduci di guerra dell’Iraq e dell’Afghanistan. Si tratta di un libro-inchiesta, Tribe, con un sottotitolo emblematico On Homecoming and Belonging (ovvero Sul ritorno a casa e l’appartenenza). Più che mai nelle vite degli odierni Travis Bickle (il personaggio di Taxi driver di Martin Scorsese, immortalato da un giovane De Niro che ripete allo specchio: «You talkin’ to me? Dici con me?») il ritorno a casa si scontra con il senso d’appartenenza. Questi due concetti, Homecoming and Belonging, sono anche l’utopia che ha fatto la fortuna dei fondatori di Airbnb: offrire la possibilità di tornare a casa e, nello stesso tempo, di sentirsi parte di una comunità, anche da soli in capo al mondo, alle prime generazioni di bambini cresciuti da soli con una propria camera da letto.
Un affare colossale, in una società opulenta dove “turisti per sempre” è persino il marchio di una lotteria, e dove tutti ci sentiamo come dei reduci dalle battaglie di sopravvivenza metropolitana nella post modernità, in attesa del permesso d’uscita per i weekend o per le ferie. Persino il nuovo logo di Airbnb, una sorta di cuoricino rovesciato uscito tre anni fa dal DesignStudio di Ben Wright e Paul Stafford, è stato lanciato con la specificazione del nome “Belò (a symbol of Belonging)” e adesso la società di San Francisco punta a vendere anche pacchetti di “esperienze” per il giorno. Del resto, si sa, l’appartenenza può diventare totalizzante.