di Tino Mantarro | Foto Archivio fotografico Tci
Alla radici del campeggiare, nato a fine Ottocento grazie a un sarto
Campeggiare significa cose diverse per persone diverse. Per i nomadi una tenda, gher o yurta che dir si voglia, rappresenta la casa. Per i militari una tappa obbligatoria della vita sotto le armi. Per i campeggiatori per diletto quel pezzetto di stoffa e nylon incarna la libertà all’ennesima potenza, il sogno dell’autosufficienza e un modo di vivere che compensa le pene quotidiane dell’urbanesimo. Un ritorno al passato, quasi ci fossimo allontanati troppo dal vagheggiato stato di natura. Padre dei campeggiatori moderni pare sia stato Thomas Hiram Holding, un distinto gentiluomo inglese (gli inglesi d’epoca vittoriana sono distinti e gentiluomini per definizione) dalle mille professioni: sarto, scrittore e avventuriero. Si tramanda che Holding nel luglio 1898 abbia disegnato e realizzato le prime tende portatili: così piccole e leggere da poter essere trasportate su una bicicletta. Una rivoluzione. Ma se la paternità della tenda portatile è incerta, Thomas Hiram Holding è stato comunque importante soprattutto perché nel 1908 scrisse The Camper’s Handbook, che in breve divenne la Bibbia per tutti coloro che volevano sperimentare le vacanze all’aperto.
Certo, per molti il fascino del campeggio rimane incomprensibile quanto un saggio sui testi ayurvedici scritto in polacco. Perché dormire quasi per terra quando esistono comodi letti? Perché passare il tempo a piantare picchetti e tirare fili quando esistono gli alberghi? Perché combattere con il caldo, gli insetti, i bagni rudimentali quando si può trovare una casa online con un clic? Chiaro, c’è il fascino reale della vita all’aria aperta. Una sorta di rituale di iniziazione famigliare che ha a che fare con le giovani marmotte, con il mito del ritorno alla natura, le reminiscenze dello scoutismo o, a scelta, della cultura hippie. C’è anche un vago amore per lo stoicismo e la voglia di essere indipendenti, staccandosi il più possibile della vita iperregolata di questi tempi. Qualcosa di più profondo e gaudente che non il semplice fare una vacanza economica e solitaria. Una sorta di filosofia esistenziale che vede nello stare all’aria aperta, nel dormire (quasi) sotto le stelle la quintessenza della felicità.
Anche il Touring Club Italiano nei primi decenni della sua storia fu un grande sostenitore del campeggio. Nel 1919 si leggeva sulla Rivista mensile: «Vorremmo che il campeggio, questa forma così utile moralmente e fisicamente di diporto potesse diffondersi, specie nel ceto più modesto: impiegati, piccoli borghesi, capi operai e operai. Libera vita all’aria aperta in schietta e festosa cordialità senza cerimonie o formalismi». Da allora il campeggio si è diffuso eccome: negli anni Sessanta e Settanta ha rappresentato il primo approccio alle vacanze a basso costo per centinaia di famiglie europee. Negli Stati Uniti è ancora una parte fondante dell’immaginario vacanziero. Eppure il campeggio divide i viaggiatori in fazioni come neanche il minestrone riesce a fare: o lo ami o lo detesti