Smirne, laica e archeologica

Paolo MorelliPaolo MorelliPaolo MorelliPaolo MorelliPaolo Morelli

Città colta e mercantile, per secoli centro cosmopolita, Izmir rappresenta una tranquilla oasi nel turbolento presente della repubblica turca. Andiamo a scoprirla

Oriente e Occidente, opera e politica, violino e zourna, pianoforte e daouli, a Smirne si mescolavano armoniosamente come i petali di rosa al miele nei dolci locali», scrive Jeffrey Eugenides in Middlesex. Il romanzo premio Pulitzer si apre con l’esodo dei greci nel 1922 dalla costa egea della Turchia – dopo la sconfitta subita – e l’incendio di Smirne, che entra a far parte del nuovo stato fondato da Kemal Atatürk sulle ceneri dell’impero ottomano. Online si possono trovare i drammatici filmati d’epoca con colonne di fumo che si alzano sopra il kordon, il lungomare, e la gente che cerca di arrivare alle navi su barchette o persino a nuoto.

La multietnicità non è sempre rosa e miele, ma l’impronta laica, mercantile ed europea della città (concorrente di Milano per l’Expo 2015) che ha dato i natali all’armatore Aristotele Onassis l’ha protetta dalle amarezze che hanno toccato e toccano il resto del Paese negli ultimi anni. Nel 2016 sono stato qui prima del ramadan – allora cadeva di giugno – tra il porto e i siti archeologici dei dintorni, come Efeso, Afrodisia, Hyerapolis-Pamukkale, che si raggiungono in auto in giornata e sono entrati in diverse fasi nel Patrimonio dell’umanità Unesco. Dopo la mia partenza e la fine del mese del digiuno islamico, si è verificato il tentativo di colpo di stato represso dal presidente Erdogan, il conseguente giro di vite sulle libertà e la fuga dei turisti, che però ora stanno iniziando a tornare, in particolare russi e tedeschi. Oltre 30 milioni le presenze in Turchia nel 2017, con un incremento del 27 per cento rispetto all’anno precedente: la storica Opera Romana Pellegrinaggi ha appena varato un tour che coinvolge oltre cento parrocchie.

L’area di Smirne non è stata quasi toccata dagli atti terroristici, a eccezione di un’esplosione davanti al tribunale del gennaio 2017, attribuita ai militanti curdi, dove sono rimaste uccise due persone, un impiegato e un poliziotto. Smirne è la terza città e il secondo porto della Turchia e ha un passato troppo glorioso per esserne all’altezza. Dopo l’incendio e la ricostruzione, conserva il fascino della vecchia città cosmopolita in alcune aree, tra cui il quartiere di Alsançak. Qui si trovano vecchi caffè tipici, locali notturni e luoghi come Meyhane Piero, che mantiene l’aspetto della casa greco-balcanica ottocentesca. Era la casa di una famiglia italiana ed è stata trasformata in meyhane, cioè osteria. Ci sono foto alle pareti, mobili d’epoca, e la preghiera del bevitore di raki, il distillato tipico turco. Nella cosmopolita Smirne – oltre a greci, armeni, turchi ed ebrei – c’erano molti italiani. Perché tra le sue tante dominazioni questa città portuale ha conosciuto anche quella genovese. Il nome originale greco, Smyrna, deriva dalla presenza di mirra. Gli europei di Smirne vengono chiamati levantini. Esiste anche un rivista online che è un punto di riferimento per la comunità italiana: nuovolevantino.it. Il 3 giugno ho partecipato ai festeggiamenti per la nascita della Repubblica italiana – in data canonica, il giorno precedente, si erano svolti all’ambasciata di Ankara – in un’azienda vitivinicola. I festeggiamenti erano organizzati dal console italiano di Izmir – questo il nome turco della città – Luigi Iannuzzi. La cornice alcolica è tutt’altro che insignificante – in un Paese islamico, dove pure si beve e il raki è la bevanda nazionale – e oltre a questo il programma musicale era diretto da una donna. Un ulteriore segno di apertura.

Nicoletta Olivieri, italiana di Bologna, lamentava la mancanza di meritocrazia nel suo Paese d’origine e anche le difficoltà per una donna di ricoprire una posizione di prestigio come la sua in Italia. Ora dirige il coro di Smirne. Anche qui non manca qualche problema di censura decisa dal regime autoritario di Erdogan e dal programma delle celebrazioni ha dovuto togliere i Carmina Burana, opera medievale considerata dagli occhiuti guardiani della morale “licenziosa”. La costa egea della Turchia è stata una delle culle della civiltà occidentale sia per quanto riguarda il periodo ellenico e poi romano che per il periodo cristiano e quindi bizantino. Qui scorre il fiume Meandro, il cui corso tortuoso ha dato il nome a una conformazione non solo fluviale, ma anche metaforica. A Efeso si trovano i resti del tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico, costruito durante il ricchissimo regno di Creso, per restare nei territori dell’antonomasia. La notte in cui nacque Alessandro Magno – il 21 luglio del 356 avanti Cristo – il tempio fu bruciato da Erostrato, che voleva passare alla storia, foss’anche solo per un atto vandalico. Naturalmente venne ucciso e condannato alla damnatio memoriae, ovvero all’oblio assoluto, ma il suo nome venne comunque tramandato. Il tempio – dopo essere stato ricostruito – andò distrutto e sono sopravvissute solo alcune colonne che restano in piedi sul nulla di una vallata da un paio di millenni a Efeso.

Erostrato è una figura che ha precorso le gesta di tanti folli che pur di lasciare un segno nel mondo decidono di compiere una nefandezza clamorosa, come il protagonista omonimo di un racconto del Muro di Sartre che spara ai passanti uccidendone quanti più possibile. Con i resti del tempio di Artemide è stata costruita la basilica di S. Giovanni. A Efeso e dintorni si trovano le sette chiese dell’Apocalisse, da intendersi come comunità ecclesiastiche, non come luoghi sacri fisici: «Ciò che tu vedi, scrivilo in un libro, e invialo alle sette chiese, di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea». Un luogo sacro fisico è la casa di Maria – una piccola cappella di pietra, sempre in quest’area –, l’abitazione dove la Vergine avrebbe trascorso gli ultimi anni della vita insieme a Giovanni. Di solito la coda per la casa di Maria è interminabile. Quando sono arrivato io c’erano pochi visitatori. La situazione, in un periodo di attentati e colpo di stato imminente, era tesa. Una calma surreale dominava le colline coperte di ulivi. Il responsabile della casa di Maria, un cappuccino francescano di Lublino, padre Maczek, mi ha detto che tra gli ulivi erano appostati i corpi speciali. Come luogo simbolo del Cristianesimo solitamente frequentato da molti turisti, poteva essere oggetto di attentati. Per fortuna non è mai accaduto nulla.

La costa egea della Turchia e il suo retroterra archeologico sono un’area tranquilla rispetto ai luoghi del potere, come Istanbul e Ankara, per non parlare delle zone abitate dai curdi verso i confini con la Siria e l’Iraq, che sono agli antipodi del Paese, in ogni senso lontane, e dilaniate da conflitti. Vicino alla casa di Maria risiede una comunità di suore italiane e un profumo familiare di caffè si sprigiona tra i miei appunti di quei giorni, in un taccuino con la copertina ricoperta di tessuto kilim, comprato davanti a non so più quale area archeologica, del resto sono così tante. Al punto che per la bellezza e l’importanza si avverte un senso di inadeguatezza – non solo culturale – nel descriverle. A giugno del 2016 faceva caldo, ma non troppo e il clima era perfetto per passeggiare tra le rovine semideserte di grandi città antiche, sepolte e riportate alla luce. Le navi da crociera non scaricavano più le consuete folle internazionali di visitatori. Una équipe di giovani archeologhe italiane pranzava durante una pausa dai lavori di restauro a Efeso, svolti sul sito dove sono state rinvenute sette abitazioni patrizie, in particolare sulle pitture murali. Impronte nella pietra, una testa di donna e un piede, segnalavano la presenza di un lupanare e un simbolo quadrato evocava involontariamente – per accostamento – una carta di credito.

 

A Priene, sezioni orizzontali di colonne scanalate giacevano per terra, come in un quadro di Savinio, sulle pendici tra i pini. Sopra all’erta di Pamukkale (circa 200 chilometri a est di Smirne), ricoperta di bianco da sorgenti termali di calcite – pamukkale vuole dire letteralmente Castello di cotone –, una coppia di giovani turisti orientali si godeva il tramonto dorato e la solitudine tra le ripidissime gradinate del teatro di Hyerapolis – anche questo restaurato da archeologi italiani –, e ancora più in alto tra la tomba e il marthyrion di San Filippo risuonavano nella sera i latrati dei cani. Ancora più soli ci si sentiva nello stadion di Afrodisia, un’area archeologica tanto vasta che dalla rete di recinzione possono entrare animali selvatici e si ha paura di perdersi.

Lo stadio poteva contenere circa 30mila spettatori, in epoca romana ospitava combattimenti tra gladiatori. Nel tempio di Apollo, a Dydyma, si ponevano domande, dopo avere percorso una ripida scalinata e offerto un sacrificio, attendendo il responso della pizia, la sacerdotessa. Tornando a Efeso – una delle città antiche meglio conservate del Mediterraneo –, vicino all’agorà commerciale, in epoca romana è stata costruita la biblioteca di Celso, dedicata al proconsole nell’Asia nel II secolo d.C.
I muri, ancora in piedi, sono stati costruiti per proteggere le opere dagli incendi e lo stesso Tiberio Giulio Celso era sepolto tra le dodicimila pergamene, distrutte da un’invasione dei Goti. Non fosse che per la tensione che si sentiva sotto al silenzio delle giornate che precedevano quel ramadan, era un piacere stare soli tra le rovine di piccole e grandi città antiche dissepolte dopo migliaia di anni.

Foto di Claudio Morelli