Il viaggiatore. Dickens, un dandy in America

Nel 1842 lo scrittore inglese andò in tour negli stati uniti. accolto come una star, ne tornò disgustato

 Nel 1842, all’arrivo di Charles Dickens, gli americani erano rimasti sorpresi dalla frivolezza dell’abbigliamento di quel romanziere così sensibile alle sofferenze dei poveri. Solo chi conosceva i dandy inglesi non si stupiva del contrasto tra i suoi abiti neri e i panciotti rossi o verde mela. Si accese subito una discussione sulla sua pettinatura: i riccioli che coronavano la sua testa erano veri o artificiali? Lo scrittore aveva trent’anni e un viso estremamente nobile. A New York la sua popolarità fu subito immensa. «Se mi volto per la strada, sono seguito da una moltitudine». Per sentirlo recitare le sue pagine, masse di ammiratori dormirono davanti alle biglietterie. Dickens, che aveva pensato a lungo di fare l’attore, era un ottimo oratore. Le feste si succedevano senza tregua. A un ballo in suo onore si accalcarono tremila entusiasti. Il barbiere che gli aveva tagliato i capelli aveva venduto a caro prezzo i boccoli caduti e la gioielleria Tiffany aveva copiato un suo busto che andava a ruba. Gli americani non sapevano che Dickens era rimasto disgustato da due loro brutte abitudini, quella di sputare in pubblico e quella di non sapere mangiare correttamente. Era stato più interessante quando aveva iniziato a esplorare quella «terra incantata».

Aveva navigato sul fiume Potomac a bordo di un battello sconquassato. Aveva visto la povertà dei coloni nelle loro precarie «capanne di tronchi d’albero»; visitato la prigione di Pittsburgh. Ma solo Cincinnati, pulita, allegra e animata, gli era piaciuta davvero. Aveva conosciuto un capo indiano su un piroscafo. Era una grande lettore e, quando Dickens gli aveva detto che avrebbe preferito vederlo nella sua tenuta tradizionale, gli aveva risposto che il suo popolo stava per scomparire dalla faccia della terra. Sulla diligenza, lo scrittore sedeva sempre vicino al cocchiere, attento a cogliere il paesaggio e le specificità dei suoi abitanti.

Lo spettacolo delle cascate del Niagara l’aveva travolto: «Scintillano come oro fuso sotto i raggi del sole (…) nei giorni coperti cadono bianche come neve, emanando un denso fumo bianco». A Chicago era stato messo a dura prova dalla familiarità invadente con cui tutti cercavano di accaparrarselo, facendolo sentire un fenomeno da baraccone. Ma non era niente rispetto all’orrore che l’aveva sopraffatto, nel Sud, davanti allo spettacolo della schiavitù. Quando i giornali si accorsero della sua ostilità si scatenarono contro di lui. Reagirono altrettanto male alle sue richieste di stabilire il diritto d’autore. Infatti negli Stati Uniti i libri, compresi quelli di Dickens, venivano plagiati o diffusi in edizioni pirata.

Il difetto nazionale, concluse, era la diffidenza. «Gli americani farebbero bene ad amare un po’ meno il reale e un po’ più l’ideale». Era insopportabile la stima di cui godevano i numerosi affaristi senza scrupoli. Alla fine, non gli era dispiaciuto ripartire. «Non amo questo Paese. Non ci vivrei per niente al mondo… è assolutamente impossibile per qualunque inglese viverci ed essere felice».