Il viaggiatore. Quando il messaggio sul bastoncino serviva da passaporto

Furono gli aborigeni a realizzare i primi lasciapassare

 

 I lettori di Touring hanno di certo un passaporto in casa, ma forse non tutti sanno quant’è lunga la storia del documento che ci permette di girare il mondo. Gli storici dicono che i primi antenati del passaporto comparvero nell’Egitto dei faraoni già nel 1500 a. C., quando furono utilizzate commendatizie di scorta e accreditazie di protezione per uscire dal Paese. Una datazione certo sorprendente, ma ci sono reperti poco noti che raccontano una storia ben più lunga, di alcune decine di migliaia d’anni. Gli oggetti in questione sono dei bastoncini o placchette di legno (message-sticks), con incise linee o figure diverse, utilizzati dagli aborigeni australiani per trasmettere messaggi a lunghe distanze, da una tribù all’altra. In sostanza, una sorta di telegramma inciso su un legnetto che un messaggero doveva portare al destinatario, spesso lontano molte decine di chilometri, attraversando regioni popolate da diverse tribù, non sempre contente di vedere degli intrusi nei propri territori.

Ma c’era una convenzione non scritta, tradizionalmente rispettata da tutti, che permetteva di superare il problema. Il bastoncino–messaggio aveva infatti anche funzione di lasciapassare e per questo – come si vede nel disegno realizzato dall’antropologo Robert Hamilton Mathews agli inizi del Novecento – il messaggero lo rendeva ben visibile appendendolo a una lunga canna portata come una bandiera. Se tutto andava bene, il telegramma di legno arrivava a destinazione annunciando, di solito, una richiesta di aiuto da parte di un clan in difficoltà, una questione da dirimere o l’invito a partecipare a un’importante cerimonia tribale (corroboree) per interagire col mitico Tempo del Sogno, l’epoca antecedente alla creazione nella mitologia aborigena. La caratteristica più evidente dei message-sticks, che per esigenze di trasporto erano sempre di dimensioni ridotte (15, 25 centimetri), è l’estrema sintesi dell’informazione che possono accogliere. A questo limite si aggiunge il fatto che, mentre in alcuni casi il messaggio è composto da elementi figurativi (uomini, animali), in molti altri è realizzato esclusivamente con segni geometrici, piccoli tratti, puntini, linee a zig-zag o ondulate, crocette, segni a forma di U. Un codice incomprensibile per chi non ha dimestichezza con i simboli grafici dell’arte aborigena. A svelare il linguaggio dei message-sticks sono stati gli esemplari raccolti a partire dal 1880 – quando quel sistema di comunicazione era ancora molto diffuso – da antropologi che chiesero ai mittenti che cosa avevano «scritto» e poi domandarono ai riceventi che cosa avevano «letto». Il confronto confermò che i bastoncini incisi contenevano messaggi articolati e comprensibili. La ricerca rivelò anche che molti degli esemplari più schematici avevano soprattutto una funzione mnemonica, cioè aiutavano il messaggero a ricordare i punti salienti del dispaccio di cui dava lettura al momento della consegna.

Piccoli oggetti, di cui il governo australiano sta costituendo un importante archivio, che rivelano la capacità delle popolazioni senza scrittura di realizzare sistemi di registrazione del pensiero. Testimonianze non dissimili sono state individuate in tutti i continenti, dove documenti del genere comparvero a partire da 30.000 anni fa. Lo studio dei message-sticks australiani ha aggiunto informazioni preziose sulla loro funzione di lasciapassare che assicurava al messaggero la libertà di transito e quindi l’affidabilità del «servizio postale». Tutte cose che ignoravo quando un aborigeno mi mostrò un message-sticks che aveva ricevuto tanti anni prima, e me lo lesse.