Messina/Reggio Calabria. Sempre più Stretto

Nuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio Zicari

Complice il Touring qualcosa inizia a muoversi per la costruzione di un “ponte culturale” tra Messina e Reggio Calabria, due città così vicine, eppure ancora troppo lontane

Da ragazzino mio cugino, messinese, ripeteva sempre una battuta alquanto scontata. «Sai che cosa c’è di bello a Reggio Calabria?». Io, che dall’altro lato non ero mai andato, buttavo lì: «I bronzi di Riace». E lui, ridendosela: «Ma che Bronzi e Bronzi, a Reggio di bello c’è solo il panorama: Messina, la Sicilia, guarda che spettacolo». Così sono cresciuto con l’idea che lo Stretto di Messina avesse senso solo se vissuto da un lato, quello giusto, il nostro. Il resto era come la quinta di un teatro, un luogo dove prendere il ferry-boat con l’Aspromonte sullo sfondo. Perché per tutti i siciliani che in estate tornavano a casa lo Stretto rappresentava la porta della Sicilia: la soglia del Paradiso. Circolava l’idea abbastanza ingenua che fosse come un confine: segnasse un noi e un loro. Del resto alla stazione Marittima di Messina c’era una di quelle cassette rosse per imbucare le lettere che non lasciava spazio a equivoci: aveva due aperture, una per la Sicilia, l’altra per il Continente. E la Calabria era innegabilmente Continente. Crescendo poi si impara che la natura dei confini dipende solo da come li si guarda: possono unire, o dividere, a seconda del racconto che se ne fa. Per cui la storia che Messina e Reggio fossero due mondi differenti era appunto una storia, più raccontata che vera.

Esiste un precedente, ancorché remoto, che parla dell’unione tra Reggio e Messina. «Anassilao di Reggio, tiranno dello Stretto, sul finire del V secolo a.C. conquistò l’antica Zancle, unificando le due città per almeno 40 anni» racconta Tonino Perna, calabrese, economista, presidente del consorzio Ecolandia, docente all’Università di Messina, città dove è stato assessore alla Cultura. «Ad aver buon orecchio per le sfumature si coglie che il dialetto della zona di Reggio è affine, foneticamente e per vocabolario, a quello parlato nel messinese» spiega Massimo Barilla, responsabile culturale del parco letterario Horcynus Orca, struttura museale che si trova a Torre Faro, dove le acque calde del Tirreno si incontrano con quelle fresche dello Ionio. «L’idea dello Stretto come unico spazio viene da Stefano D’Arrigo che nel suo romanzo fiume, Horcynus Orca, parlava sempre dello Scill’cariddi, due mari, un’unica identità» prosegue Barilla, anche lui calabrese a Messina. Identità unica perché i destini delle due sponde e delle sue genti sono sempre stati incrociati. «C’è stata una relazione costante tra Reggio e Messina, per secoli il porto più importante della Sicilia. Dall’Aspromonte arrivavano la legna per le navi e il carbone, ma anche il ghiaccio in estate. Anche se Reggio non reggeva il confronto con la dinamicità economica e culturale della città siciliana, vero porto cosmopolita» racconta Perna. «Poi c’è stato il terremoto del 1908 che ha segnato uno spartiacque nella storia, entrambe sono state spazzate via dal maremoto che ne ha cambiato non solo il profilo urbanistico, ma anche i destini».

A unirle ci ha pensato l’università: «Quella messinese venne fondata nel Cinquecento: tenendo fede al suo ruolo per decenni ha costituito il vero ponte “culturale” dello Stretto. Fino al 1970 da Reggio tutti dovevano venire a studiare qui». Questo favoriva scambi, matrimoni misti e relazioni professionali. Poi a Reggio hanno aperto l’Università del Mediterraneo e il legame si è affievolito, anche se all’inizio erano istituzioni complementari. Oggi questa unicità culturale si è persa, più per motivi amministrativi che altro. Da un lato la Regione a statuto speciale, dall’altra una normale: due universi che a livello burocratico non dialogano. «La Regione come entità non sa leggere gli aspetti storici e antropologici, non capisce che il mare unisce, non divide» spiega Barilla. «Solo lo sport di recente ha acceso una rivalità che non è mai stata sentita». Divise dal mare e dalla burocrazia, unite da un traghetto che ogni 40 minuti le collega partendo da Villa S.G. (a una decina di chilometri dal centro di Reggio), oggi le due città sono accomunate dai problemi. «Sia Messina sia Reggio sono il centro della periferia» scherza Perna. Se c’è qualcosa che oggi lega due città è una sostanziale stagnazione economica e una relativa perifericità rispetto ai contesti regionali. «Vista da Palermo, Messina è solo una protesi da attraversare per arrivare in Continente, una città bretella solcata dal traffico pasante. Vista da Cosenza e Catanzaro, Reggio è l’estremo Sud, con cui non è necessario entrare in relazione» spiega. «Fino agli anni Settanta entrambe erano relativamente dinamiche poi, tra i moti di Reggio del 1970 e la crisi di quel poco di industria che c’era a Messina, la situazione è diventata quella che viviamo». Quel che è peggio è che in questi anni di impoverimento si è anche rovinato il paesaggio unico dello Stretto. «Colpa di una borghesia parassitaria che si è arricchita con un’economia di rapina, ma anche dell’economia criminale: entrambe hanno sfruttato il boom edilizio, dilapidando il patrimonio naturalistico. Così oggi Messina è una città popolata di tanti ricordi, ma con un presente confuso e precario. Qui, come a Reggio, il 50% dei giovani non ha altra possibilità che emigrare» sostiene Perna.

In una realtà come questa il turismo potrebbe essere ben più di una risorsa e l’unico modo per sfruttarlo sarebbe costruire degli itinerari dello Stretto, far dialogare le due sponde e far capire che ci sono possibilità per tutti. È il succo di un workshop organizzato dai Club di territorio Tci di Messina e Reggio Calabria lo scorso dicembre. Il potenziale è enorme, metterlo a sistema è dunque la vera sfida. Qualcosa si muove, anche per merito di due realtà museali d’eccellenza che insieme potrebbero costruire un primo, ideale, ponte culturale. Se del Museo nazionale della Magna Grecia casa dei Bronzi di Riace si conosce tutto, meno si sa del Mume, il Museo Regionale Interdisciplinare di Messina con il suo giardino mediterraneo. «La nostra è una storia molto italiana di una struttura progettata la prima volta nel 1912 per accogliere le opere recuperate dopo il terremoto e conclusa un secolo dopo» spiega la direttrice, Caterina Di Giacomo. Il progetto odierno è degli anni Settanta, la prima pietra del 1985, l’apertura del 2016. ll Mume, che al suo interno ben allestito conserva opere di Caravaggio e Antonello da Messina è invece una realtà moderna. «Una realtà che molti si sorprendono di trovare a Messina» prosegue Di Giacomo, che vorrebbe poter aprire un ristorante sul tetto «da cui si gode una vista stupenda del porto e dello Stretto». Collocato a un passo dal mare, al capolinea della linea tranviaria, il Mume potrebbe diventare uno dei punti di forza di un percorso turistico, specie se messo in relazione con il museo reggino. «Per ora il dialogo è difficile: dipendiamo da due amministrazioni diverse, una regionale, l’altra statale. La volontà c’è, ma tutto si inceppa a livello burocratico» racconta la direttrice. Non sono frenati dalla burocrazia gli ideatori di due festival che animano la bella stagione sullo Stretto. La Fondazione Horcynus Orca, che gestisce anche il Macho – museo di arte contemporanea all’interno dell’antico faro –, organizza l’Horcynus festival che unisce le due sponde con spettacoli a pelo d’acqua a Torre Faro, ma anche nel castello di Scilla o nei teatri di Reggio Calabria. Mentre a ottobre tra Messina, Reggio e Catania si tiene il SabirFest, dedicato alla cultura e alla cittadinanza mediterranea. «Le integrazioni devono essere prima di tutto culturali, solo così possiamo recuperare quel senso di comunità dello Stretto che si è perso» spiega Ugo Magno, editore di Mesogea, anima del festival. «Per costruire qualcosa si è anche pensato alla candidatura dello Stretto a Patrimonio Unesco, iniziativa che ci permetterebbe di iniziare un percorso di confronto, per radiografare l’esistente e creare ulteriori collegamenti» auspica Magno. Ma per ora sono solo buone idee.

Un’altra buona idea anima la riapertura del forte Gullì, in località Arghillà tra Reggio e Villa, trasformato nel Parco ludico tecnologico ambientale Ecolandia. «Questo è uno dei 23 forti umbertini costruiti tra il 1882 e i 20 anni successivi per vigilare lo Stretto» spiega Piero Polimeni. Strutture imponenti, ben mimetizzate nel terreno, attive fino alla seconda guerra mondiale anche se utilizzate, forse, una volta sola. «Quello dei forti è un patrimonio ignorato, un potenziale enorme che adesso si sta riscoprendo» prosegue. Affidato a una cordata di cooperative sociali, il parco è dedicato ai grandi miti della Magna Grecia e all’ecologia pratica, ha un ristorante, un grande anfiteatro, un giardino e un’azienda agricola. Fa il paio con quelli dal lato messinese, come forte S. Jachiddu e forte Petrazza, da cui si gode una vista maestosa dello Stretto. Altri potenziali attrattori ancora poco sfruttati. «Perché se è vero che il turismo è un potenziale è altrettanto vero che per ora quasi nessuno si ferma in città. I posti letto sono pochi, molti hotel storici hanno chiuso. I croceristi – e in estate attracca quasi una nave al giorno – per la maggioranza partono subito con i pullman verso Taormina, l’Etna, Tindari e a Messina restano in pochi» spiega Elisabetta Reale, giornalista della Gazzetta del Sud, quotidiano ponte tra le due città. Di recente va un po’ meglio a Reggio Calabria: da quando hanno inaugurato il Museo nazionale della Magna Grecia le presenze sono cresciute, ma sul resto del territorio si spingono in pochi. Peccato. «Peccato, perché lo Stretto è un microcosmo unico, con una ricchezza storica e una specificità naturale di cui pochi si rendono conto. Però deve passare anche dalla riconquista del mare: paradossalmente sono due città di mare che sul mare fanno poca vita» spiega Elena Bonaccorsi, ideatrice di Me&Sea, un festival nato nel 2015.

Reggio Calabria del suo mare se ne è reimpossesata negli anni Novanta, quando l’allora sindaco Falcomatà si fece promotore di un’iniziativa semplice quanto rivoluzionaria: interrare la ferrovia che separava il centro dell’acqua. Così oggi Reggio ha un ampio lungomare da far invidia alla promenade des Anglais di Nizza. In estate diventa un’attrazione quotidiana: di giorno i lidi, di sera il passeggio. A Messina invece il mare è uno squarcio nel tessuto urbano che si intravede solo a momenti. Nonostante sia distesa per chilometri tra Tremestieri e capo Peloro, la città gli ha voltato le spalle e non ha un vero lungomare: giusto un chilometro davanti alla Fiera campionaria in stato di semi-abbandono. Il resto sono imbarchi per traghetti, cantieri navali, il porto per le navi crociera, la zona militare di MariSicilia oppure scempio assortito. «È il caso della Falcata, la parte di costa che crea la vasta insenatura naturale che per secoli ha assicurato la prosperità del porto, e che oggi versa in uno stato di confusione urbanistica totale» aggiunge Bonaccorsi. Così non ci si riesce neanche ad avvicinare a quello che, fossimo in America, sarebbe l’epicentro turistico della città: la Madonnina che accoglie le navi quasi fosse una Statua della libertà. Così il festival Me&Sea punta a valorizzare il mare. «È necessario che il territorio impari a vivere il mare non solo come spiaggia estiva, ma come valore fondante della città» spiega Bonaccorsi. Il festival è itinerante: si tiene a Messina, Catania e Palermo, e in passato anche a Reggio. Elena ne è convinta: «Dovremmo iniziare a vivere lo Stretto come luogo, non solo come spazio di transito».

Che poi è quello che da sempre fanno i pescatori dei due lati. «Lo Stretto è vivo e noi diamo il nostro contributo» si anima Antonella Mancuso. Con la sorella Giusy dopo la laurea hanno rilevato la licenza di pesca del nonno materno 90enne e hanno investito in un’attività tradizionale considerata moribonda. Con gusto per l’azzardo hanno iniziato a proporre esperienze di pesca turismo nello Stretto. «Nonno era scettico: secondo voi chi paga per faticare? Invece, dopo sei anni, possiamo dire che funziona» spiega Antonella dalla spiaggia di Ganzirri. «Qui tutto è particolare e va raccontato: dal fondale al tipo di pesca, dalle leggende al paesaggio» aggiunge. Il pesca turismo potrebbe decollare ancor di più se si coinvolgessero anche le feluche utilizzate il pesce spada: non una pesca, ma un rituale di caccia degno di Moby Dick, la cui tradizione è ben raccontata al museo Horcynus Orca. Per unire questo patrimonio servirebbero allora più che buone intenzioni sparse. «Serve un progetto culturale, sociale e politico. Il sogno è una grande area dello Stretto, una città metropolitana di 500mila abitanti» sostiene Tonino Perna. Ma già pensarle come una entità turistica da visitare insieme sarebbe un grande risultato. Su tutto questo aleggia il fantasma del ponte, quello vero. Quello di cui si parla da un paio di secoli, invocato come la manna dal cielo o un’opera inutile; quello forse serve, forse non serve. Quello che è ormai diventato un’altra leggenda dello Stretto.

Fotografie di Nuccio Zicari