Moldova. Tra vino e divino

Giacomo Fe'Giacomo Fe'Giacomo Fe'Giacomo Fe'Giacomo Fe'Giacomo Fe'Giacomo Fe'Giacomo Fe'

Grandi vigne, antichi monasteri e tradizioni popolari stemperano la pesante eredità sovietica di questo piccolo Paese ai confini dell’Europa

 La notte è più notte, in Moldova. Scura, quasi nera. Il buio entra dal finestrino lungo la Magistrala M3, la strada che unisce il Sud del Paese con la capitale Chişinău, tra campi sterminati e rade abitazioni. Qua e là qualche luce flebile rischiara i villaggi sparpagliati per la campagna, illumina giusto qualche metro, come certi lampioni nei borghi di provincia di una volta. Solo a Chişinău c’è un’illuminazione più consistente, anche se ancora tenue per gli standard eccessivi della luminescente Italia. L’illuminazione stradale in Moldova è un po’ come il Paese, sottotono. Così mentre lo attraversi sobbalzando viene da pensare che la vecchia Europa dell’Est quand’era ancora socialista dovesse essere molto simile a questa piccola nazione. Simile a queste strade screpolate, a questi villaggi silenziosi, a queste dense campagne ben arate eppure povere. Quel tipo di luoghi forse non belli, di cui però quando parti conservi un ricordo intenso. Perché i moldavi sono ospitali, orgogliosi di farti vedere quel che c’è, cosa fanno, dove lo fanno, come vivono. Lo disse anche il poeta Alexander Puškin, che a Chişinău visse tre anni in esilio e alla fine non se ne voleva più andare: «Buon cibo, belle donne, grandi bevute».

E se è vero che c’è relativamente poco da vedere, almeno di quelle cose che accumulano stelle sulle guide, è altrettanto vero che invece c’è molto da osservare in Moldavia. La lista ufficiale dei luoghi notevoli ne assomma 130. Qualche bella chiesa in legno, affrescata e di origine medievale; villaggi tradizionali come Butuceni; un sito Unesco, a Orhei Vechi, che si trova all’altezza di un’ansa del fiume Răut disegnata col compasso; una manciata di monasteri ortodossi dall’atmosfera assai solenne sopravvissuti all’ateismo di Stato; la cattedrale settecentesca e altri palazzi della capitale, con la sua aria tranquilla e l’architettura brutalista figlia di un terremoto del 1940, dei bombardamenti della Luftwaffe e della ricostruzione sovietica. Alcune curiosità etnografiche come la cittadina di Soroca, che raccontano essere la capitale alquanto kitsch degli zingari moldavi; e la Gagauzia, regione nel Sud abitata dai gagauzi, popolazione di origine ottomana incastrata qui per quelle giravolte della storia tipiche di queste latitudini. La lista dei luoghi notevoli però non tiene conto di quelle esperienze – mercati popolari dove file di verdure marinate rubano spazio a pesci essiccati, stazioni del bus popolate come chiese la notte di Natale, passeggiate tra i campi – che ti danno da pensare e ti permettono di entrare in relazione con il luogo e le persone che lo abitano. Anche perché, a dispetto di quel che si è portati a pensare, comunicare è semplice. Non tanto perché la lingua moldava – di origine neolatina e cugina assai prossima (è la stessa) del rumeno – con un po’ di impegno si capisce; quanto perché circa un quinto dei 3 milioni e mezzo di moldavi è transitato per qualche tempo in Italia o comunque ha un parente vicino o lontano venuto a cercare fortuna nel nostro Paese.

 

Le statistiche dicono che oggi in Italia vivono 144mila moldavi. Ma molti di più sono quelli che ti raccontano di aver trascorso un periodo tra Veneto ed Emilia Romagna: tante badanti, certo, ma anche camionisti e muratori. Li incontri ovunque, e appena sentono che sei italiano si raccontano e ti raccontano. Basterebbe questo per far venir voglia di andar a vedere com’è questo Paese senza mare che si trova quasi ai confini dell’Europa, quasi schiacciato tra Romania e Ucraina. Voglia che lo scorso anno è venuta a circa 120mila turisti, cifra che ne fa – per ora – il Paese meno visitato d’Europa. Certo le statistiche del turismo sono da prendere con le molle, però è vero che la Moldova è un po’ un buco nero sulle mappe. Già collocarla è un problema. Anche perché quando dici, sto per andare in Moldova tutti chiedono: «In Moldavia?». Eh, no. La Moldavia è una regione storica che fa parte della Romania, questa – che della Moldavia storica era la parte orientale – è la Republica Moldova, l’antica Bessarabia ai tempi degli zar divenuta poi Repubblica Socialista Sovietica Moldava. Indipendente dal 27 agosto del 1991, la Repubblica Moldova – come tengono sia chiamata – in meno di trent’anni ha attraversato una guerra civile che ne ha amputato una parte del territorio, la Transnistria (vedi pag. 51); un buon numero di governi noti per la corruzione imperante e scandali assortiti, e una crescita economica perigliosa, che però di recente forse ha imboccato la strada giusta, che porta all’Europa. E ora ha deciso di provare ad aprirsi al mondo.

E che cosa ha da offrire al mondo la Moldova? Un paesaggio fertile, verde, marrone o giallo, a seconda delle stagioni. Un paesaggio di colline basse e lunghe, che si susseguono come le onde del mare che si ingrossa a fine estate. Colline di vigneti, girasoli, grano. Qualche mucca, occasionali pecore, qui e lì resti mal ridotti di antiche fattorie collettive, prosperose file di noci ai due lati delle strade, equivalente dei platani sulle nostre strade provinciali. E poi ancora: grano, girasoli, vigneti. La monotonia suggerisce eternità, l’eternità del tempo che passa e non cambia le cose. Che poi non è così vero, non ora, non più, almeno. Perché basta intraprendere uno dei tour enologici che sono il punto di forza dell’offerta turistica nazionale per capire che qualcosa sta cambiando, che l’eredità non è più solo peso che grava sul presente, ma qualcosa da cui partire per immaginare il futuro. Te ne accorgi in un giorno di ottobre in cui nella capitale si tiene l’annuale festival del vino, il momento in cui la principale industria locale si racconta e si mostra al Paese.

C’è un detto in Moldova: «Se sei un alcolista ti versi il vino da solo, altrimenti lo condividi». E questo è il giorno della condivisione, una specie di Vinitaly di piazza, dove le cantine vengono premiate, i politici si mettono in mostra, si fanno acquisti, si celebrano feste e si brinda allo sviluppo di un settore che si sta modernizzando. Storicamente la Moldova era, con la Georgia, il grande fornitore di vino dell’Urss. Un mondo in cui i numeri contavano più della qualità; in cui c’erano cantine capaci di produrre milioni di bottiglie l’anno di vini di cui l’unica cosa che potevi dire è che era rosso. Cantine antiche, un tempo statali e collettive, come Castel Mimi, dove producevano oltre 100 milioni di bottiglie. Oggi è una cantina d’avanguardia, monumentale nella sua architettura che coniuga un palazzo alla francese e una moderna struttura che trasferisce anche qui la moda degli architetti in cantina. Oppure come Cricova, non distante dalla capitale: azienda di Stato che negli anni Cinquanta ha costruito la più grande cantina sotterranea del mondo. Un dedalo di 200 chilometri di tunnel dove avvengono ancora tutte le fasi della lavorazione, dall’imbottigliamento all’invecchiamento. Una volta produceva 40 milioni di litri l’anno, oggi si limita a 8 milioni di bottiglie. Stipate in questi tunnel che sembrano bunker dove vengono conservate con riguardo le bottiglie del presidente Putin, perché l’industria enologica locale ha un prima e un dopo Putin.

Quando la Moldova ha deciso di avvicinarsi all’Europa, la Russia ha imposto un embargo totale, affossando le aziende che avevano nell’ingombrante vicino il principale mercato. Questo, se all’inizio ha creato non pochi problemi, nel lungo periodo è servito da stimolo per investire in aziende moderne, attente a qualità del prodotto e marketing. Così piccole realtà si sono fatte spazio. È il caso Et cetera, della famiglia Luchianov, che ha aperto nel 2003 con un’idea assai moderna di conciliare produzione e ospitalità. Così qui si può venire a passare qualche giorno tra i campi e mangiare nell’agriturismo con tanto di scuola di cucina che permette di osservare da vicino le signore intente nella raccolta. Perché in Moldova i lavori nei campi pare siano prerogativa femminile. Signore dai modi gentili, scialli colorati, capelli vaporosi e sorrisi dorati: nelle mani, sul volto, portano impresse le rughe del socialismo, che sarà pure passato da un pezzo, ma la cui eredità, almeno qui, sembra continui ad avvolgere tutto, proprio come la notte.

Foto di Giacomo Fe'