di Tino Mantarro | Foto di Marco Pavan
Tra vigneti e ricordi di guerra, un viaggio nel paesaggio tra Salgareda e Ponte di Piave, amato e descritto dallo scrittore Goffredo Parise
Un giorno negli anni Settanta uno scrittore veneto si trovava a cavalcare in compagnia di un amico sul greto del fiume Piave. «Era un tardo pomeriggio di fine agosto, un po’ ventilato, e la stagione stava calando verso l’autunno. (…) avvolto in un ampio verde disordinato, tra viti nane e alberi da frutto, c’era un relitto di casa, una sorta di fienile quasi invisibile, coperto da un grosso gelso stiro che gli stava di fronte». Lo scrittore a cavallo era Goffredo Parise e quella casa, «in quel piccolo Eden profumato di sambuco», decise di comprarla. Dopo aver girato il mondo e aver cambiato quaranta abitazioni, Parise, vicentino di nascita, decise di mettere radici in riva al Piave, a Salgareda, nel Trevigiano. «Una casetta, una specie di casa delle fate, minuscola e vecchia, con tutto vecchio dentro ma efficiente (…) dove si potesse respirare però il senso del tempo, sia atmosferico, sia psichico». Una casetta di mattoni screpolati, con un grande prato davanti, una siepe a far da staccionata e la vista verso il Piave, costruita all’interno di quella che altrove si dice golena e qui, in Veneto, è una “grave”. Una casetta che oggi è uguale a come l’ha lasciata lui, nel 1982, quando a causa della sua malattia degenerativa fu costretto a trasferirsi a meno di un chilometro, nel centro di Ponte di Piave.
Salgareda e Ponte di Piave sono i due universi attorno a cui è ruotata la quotidianità di Goffredo Parise negli ultimi anni di vita. Due universi minuti, non eclatanti, provincia italiana di quella buona. Una provincia architettonicamente quasi ordinata e già questo sembra un miracolo nella terra dei capannoni. Specie Salgareda, unico paese della zona ricostruito qualche chilometro più in là dopo esser stato raso al suolo dal fuoco amico durante la prima guerra mondiale – si trovava dal lato asburgico del fronte –, non ha abitazioni più alte di due piani, il che gli dona un aspetto di campagna a misura d’uomo. Una provincia fisicamente piatta, perché siamo in quella parte della Marca trevigiana dove già si sente odor di laguna. Tra i campi geometrici spiccano robusti campanili alla veneziana, qualche piacevole villa di delizia della nobiltà lagunare come Villa Molon, ora sede di una cantina con annesso museo della civiltà contadina, e l’imponente Sacrario militare di Fagarè della Battaglia, appena oltre il serpentone del Piave, sulla sponda occidentale. Una costruzione bianca e austera come austeri sono i cimiteri militari. Qui riposano le spoglie di 5.191 soldati italiani riconosciuti, di un austro-ungarico e di un americano, il tenente Edward McKey, ufficiale della Croce Rossa e amico di Ernest Hemingway, all’epoca autista d’ambulanza. Nella cappella sono scolpiti in ferro i versi di Ucciso, la poesia che Hemingway – che amava considerarsi un ragazzo del basso Piave ricordando i giorni in cui un colpo di mortaio austriaco gli buttò in corpo 227 schegge, esperienza che ispirò Addio alle armi – dedicò all’amico tenente
Una provincia piatta, ma assai operosa perché il lavoro qui è religione, si sa, ma ti sorprendi lo stesso quando il sindaco di Salgareda, Andrea Favaretto robusto amministratore che gestisce con palese buon senso il territorio, indica con orgoglio le imprese dal respiro internazionale di un Comune di 7mila abitanti, piccole eccellenze che a volte sono grandi imperi economici. Paesi senza dubbio benestanti, specie grazie ai vigneti, che insieme alle anse del Piave disegnano il paesaggio come una scacchiera sui toni del verde. «Sempre stata terra di vini questa – spiega Luigi Bonato, titolare con il fratello Andrea de Le Rive. –. Quello autoctono è il Raboso Piave, un rosso da bere giovane. Ma adesso ovunque piantano prosecco, perché è quello che vende». E nel dirlo sembra risentito, ma parlandoci capisci che il senso del discorso è più profondo, dalle sue parole distilla amore per il suo territorio. «Non è la vite di queste zone, era il vino delle colline, mio padre lo disdegnava» racconta dal cuore della sua azienda a Ponte di Piave. «Non posso biasimare chi ha piantato prosecco ovunque, perché mantenersi con l’agricoltura altrimenti è quasi impossibile. Ma quel che fa la differenza è la sostenibilità: non solo economica ma etica e umana, per costruire e sostenere il territorio, altrimenti tutto va in malora» racconta.
Sostenibilità territoriale che sta a cuore anche a Gabriele Cescon, direttore generale delle Cantine Maschio, storico colosso del vino frizzante. «Il boom del prosecco qui ha creato economia, ha avuto un impatto importante, anche visivo, sul territorio. Proprio per questo è necessario investire sulla sostenibilità ambientale dei nostri prodotti. Non tanto perché nonostante 500 milioni di bottiglie l’anno la moda può finire, ma sopratutto perché il vino incarna il territorio, ne racconta storia e cultura: se per far profitti lo violenti, non lo rispetti, non può andar a finire bene». Proprio per rispetto del territorio e della sua tradizione anni fa Bonato ha acquistato un vigneto storico, disperso tra rogge e filari. «È stato piantato nel 1870, ha resistito alla prima guerra Mondiale, ma soprattuto è uno dei pochi rimasti pre fillossera, il parassita che a fine del XIX secolo ha devastato i vigneti in Europa» racconta. Un vigneto ancora in produzione, gestito da Costantino Costante, 82 anni radicati in questo fazzoletto di terra sul Piave. Un vigneto che ha una sua bellezza estetica, perché piantato con il metodo Bellussi: un intreccio di viti e gelsi che lo fa assomigliare a una cattedrale gotica vegetale. Con lo stesso spirito archeologico Bonato gestisce i vigneti intorno a casa Parise a Salgareda, quasi a voler mantenere il paesaggio come era allora. Un po’ come è stato per la casa color mattone dove Parise scrisse tutti i Sillabari, tenuta come una reliquia da Moreno Vidotto ed Enzo Lorenzon, i nuovi proprietari. «L’abbiamo acquistata nel 2006 consapevoli del suo valore culturale e della necessità che fosse in qualche modo preservato» spiega Lorenzon. La casa è come la lasciò: tre stanze sotto, tre sopra, un letto in legno di cirmolo, la Lettera 22 per scrivere, gli stivali di cuoio con cui camminava. In più c’è solo una raccolta di prime edizioni e traduzioni dei suoi libri. Lorenzon e Vidotto la aprono a chi vuol curiosare nella vita di Parise e organizzano letture di poesia sotto i gelsi. Un modo discreto di preservarne il ricordo. La stessa discrezione che si percepisce a Ponte di Piave, «un paesello con una fontana d’acqua ferruginosa» dove Parise si dovette trasferire per gli ultimi anni. «Una casa che a me sembra bellissima, un ex barchessa, piena di luce e di verde», una casa che per sua volontà è stata donata al Comune allo scopo di farne non un museo, ma un centro di cultura viva. Con una sola richiesta: che le sue ceneri fossero sepolte in giardino sotto una stele minimalista, dove non compare neanche il nome, solo GO. PA. Così il secondo piano è stato trasformato nella biblioteca comunale, dove i ragazzi vengono a studiare e le persone a leggere il giornale. Gli spazi vissuti da Parise sono rimasti intatti, con i quadri di Giosetta Fioroni (la sua compagna) e di Mario Schifano, ma anche cinque tele opera dello scrittore, alcuni cimeli dei viaggi in Oriente e la libreria ordinata per autore. «Cerchiamo di farla vivere: da dieci anni c’è un gruppo di lettura che si riunisce in salotto, mentre per i bambini organizziamo letture sul tappeto» spiega Francesco Tiveron, il bibliotecario. Un bel modo per perseverare la memoria, visto che i suoi libri li prendono in prestito davvero in pochi: «Sono considerati difficili…».
La memoria di Parise si conserva invece sparsa qui e lì. A Ponte di Piave accanto alla stazione hanno dipinto un murale che lo rappresenta e in qualche locale trovi pure una sua fotografia. Non Da Marcea, la trattoria di campagna dove andava a mangiare gamberi rossi di fiume all’ombra dei platani, perchè ha chiuso e cambiato nome. La trattoria dove andava Parise però esiste ancora a un altro indirizzo, accanto a una delle tante rotonde simbolo del paesaggio contemporaneo. Si chiama “Da a Bèa”, è gestita dalla stessa famiglia e conserva quel fascino d’anni Settanta che di tanto in tanto si trova nei locali fuori mano. Dario, figlio della cuoca, Parise se lo ricorda bene. «Veniva due, tre volte, con la bella stagione, durante i suoi giri in bicicletta con la Giosetta. Prendeva un tè, oppure un prosecco, di quello nostro, che a lui piaceva bere bene» racconta. Sulla destra, accanto al bancone c’è una foto in bianco e nero di Parise intento a battere sui tasti della sua Olivetti. Nella dedica scritta a mano lo scrittore ringrazia per la bellissima cena. È datata 27 agosto 1983. «In estate veniva spesso, gli piaceva stare all’aperto, in compagnia» ricorda Dario. «Era gentile, schivo e parlava poco. Mia madre gli dava del Maestro, lei sapeva chi fosse, io l’ho scoperto solo dopo». Pietro Bergamo invece Parise lo conosceva bene. Era il suo vicino di casa. Abita ancora nella grava a due passi dalla casetta. Suo padre è il vecchio con calce e carrettoni protagonista di Bellezza, nei Sillabari. La sorella faceva le pulizie in casa; lui oggi si prende cura del giardino. A Parise piaceva passar il tempo con loro «con la gente della “grava” è diversa da chi sta al di là, al sicuro: solidarietà umana, anche selvatichezza, simpatia e un certo quale mistero». Mistero che un giorno degli anni Settanta lo affascinò al punto da fargli piantar radici, dopo aver «girato il mondo fino a quando mi han sorretto gioventù, spirito di curiosità e l’ansia esistenziale che doveva aver Marco Polo».