Il Giappone come una volta

Viaggio (anche in bici) sull’isola di Shikoku, tra i fitti boschi della valle di Iya e il pellegrinaggio circolare degli 88 templi, per scoprire che esiste e resiste un Paese ad andamento lento, oltre alle città ipermoderne

 Gli anglosassoni con il loro modo di fare enfatico lo chiamano Lost Japan, il Giappone scomparso. Per noi Shikoku, la più piccola delle quattro isole principali del Giappone nonché la meno visitata, è semplicemente un Giappone diverso, più naturale, meno battuto. Una volta arrivati lì ti convinci che forse hanno ragione gli inglesi: questo è il Giappone com’era, prima che la furia modernizzatrice del dopoguerra quasi spazzasse via il paesaggio naturale, neanche fosse una vergogna. Consola pensare che anche per i giapponesi Shikoku sia Tooi inaka, la campagna profonda, il posto giusto dove fare esperienza della natura come era prima. Certo, anche qui lungo la costa e nelle parti pianeggianti è campagna per modo di dire: tutto assai artificiale e antropizzato, del resto è uno dei Paesi più affollati del mondo. Così quel che vedi viaggiando è un’urbanizzazione selvaggia e pervasiva, figlia di una pianificazione che si direbbe a casaccio. Città sterminate, ammassi di case spesso brutte, palazzi alti da periferia malpensata, immancabili viadotti autostradali che svettano su una selva di cavi elettrici: un paesaggio tutt’altro che suggestivo. Una bruttezza schiacciante che a ogni angolo è sostituita da piccole forme di bellezza assoluta, quasi che i giapponesi la concepissero solo nei dettagli minimi e nella pura forma: fosse anche solo il rito parareligioso con cui un maestro di sushi prepara bocconi di riso e pesce crudo, l’ordine con cui è organizzato il bagno caldo negli onsen, le terme tradizionali, o l’estetica delle piccole cose quotidiane. Ma se sulle altre isole lo spazio tra una città e la successiva è occupato da neon e cemento, a Shikoku basta uscire dai centri abitati, attraversare campi di riso allagati per entrare subito nella natura, senza mediazioni.

Un cambio di prospettiva che regala una sensazione strana, sembra quasi che le montagne spuntino dalla pianura come funghi. Si ha l’impressione che il paesaggio sia fatto solo di primo piano e sfondo. Pare esista una spiegazione storica a tutto questo: in un Paese assai montuoso il terreno coltivabile è stato sempre una preziosa rarità, per cui nei secoli i giapponesi si sono dati da fare a dissodare la terra, spianando qualunque metro utile, eliminando gli spazi di transizione e lasciando il resto al bosco. Bosco che nelle zone interne di Shikoku sembra sempre una foresta selvaggia quasi fossimo ai tropici e non in una zona temperata. Un bosco fitto, con coperte di felci e tappeti di muschi, mentre altrove assomiglia a un bosco addomesticato. Anche per questo, forse, in Occidente ci siamo fatti l’idea che la natura in Giappone sia una delicata replica dei giardini zen della nostra immaginazione: sabbia rastrellata, ruscelli disegnati con la riga, foglie che si colorano seguendo ignote leggi della colorimetria, silenzi. Un naturale assai artificiale, che rimanda all’ideale di bellezza per cui la natura deve essere piegata a un ordine estetico. Ma fortunatamente a Shikoku non è così. La natura non è tutta un giardino giapponese: a suo modo è delicatamente selvaggia. Anche se a Takamatsu si trova il grande giardino tradizionale di Ritsurin Koen, «uno dei tre migliori del Paese» come tengono a sottolineare le guide. Dunque qui si può può godere del Giappone come doveva essere: una terra rurale e spirituale, un’alternanza di templi, campi di riso e fittissimi boschi di pini bianchi e aceri, che in autunno si colorano delle sfumature del rosso. Chiaramente sull’isola non mancano le attrazioni: l’imponente castello del XVII secolo di Matsuyama – uno dei pochi che non abbia preso fuoco –, lo stabilimento termale più antico dell’arcipelago, le affascinanti Dogo Onsen di Matsuyama; o il Kotohira-gū, un santuario scintoista dedicato a una divinità protettrice dei marinai e viaggiatori che si trova non lontano da Takamatsu, sulla cima di una collina che si scala affrontando 1.368 gradini.

Shikoku vale un viaggio soprattutto per altro. Qui si arriva per la natura e per l’antico pellegrinaggio degli 88 templi, che quella natura attraversa. Un percorso che ha oltre mille anni di storia: ripercorre le gesta del venerabile maestro Kōbō Daishi, monaco originario dell’isola che nell’VIII secolo fondò la setta degli Shingon, una forma di buddhismo assai concreto che oggi rappresenta una delle maggiori scuole del buddhismo giapponese. Il pellegrinaggio degli 88 templi è forse l’unico al mondo a non avere un inizio e una fine. Per convenzione c’è un tempio numero uno – Ryozen-ji, la montagna sacra – e un numero 88, in mezzo 1.400 chilometri di sentieri che più o meno seguono la costa. Ma appunto, è una convenzione. Del resto il buddhismo è circolare per definizione, e la cosa non sorprende. Anzi, ha una sua certa poeticità: un cammino eterno, come la ricerca dell’illuminazione, che non dovrebbe aver mai fine. Di certo a percorrerlo davvero a piedi sono in pochi. I più prendono la macchina, il pellegrinaggio non è di gran moda, non come quello che porta a Santiago de Compostela, ma è un’esperienza per anziani, gli unici forse ad avere il tempo, ma non la forza, per completare il percorso. I veri henro-san, i pellegrini, si bardano di bianco, indossano un cappello di bambù che sembra un portafrutta rovesciato, la bisaccia in spalla e coprono le tappe comodamente seduti in auto. Sostano nel parcheggio, si rifocillano ed entrano, genuflettendosi all’ingresso in modo aggraziato e scenografico tra le due statue di demoni che sorvegliano la porta di pietra. All’interno trascorrono il tempo che serve per fare le abluzioni rituali, accendere gli incensi, deporre un foglietto con un desiderio (senza dimenticare di segnare l’indirizzo, non si sa mai), fare una donazione e recitare a mani giunte un sutra per rammentarsi della vanità della vita. Vanità che viene combattuta anche facendosi apporre un timbro e un arzigogolato tratto di pennello sul quaderno che funge da credenziale, come per il Cammino di Santiago. Per il resto l’impressione che si ha visitandone alcuni – il numero 75, Zentsu-ji, costruito dove c’era la casa di Kōbō Daishi è tra i più belli e complessi, gli altri sono assai semplici – è che siano vuoti. Belli esteticamente, meravigliosamente tenuti, ma vuoti. Lo sviluppo del dopoguerra li ha svuotati. La religione è un fatto personale – si prega, se si prega, in casa –, non un rito collettivo: l’unico rito collettivo, oltre allo shopping, è l’adorazione dei ciliegi in fiore. Almeno i templi rimangono un’oasi di natura addomesticata ritagliata tra le distese di cemento del Giappone urbanizzato.

Il posto migliore per fare esperienza della natura di Shikoku si trova nella valle Iya, la gola più profonda del Giappone, un paesaggio di rocce di scisto, con torrenti verdi, antichi ponti di legno, dirupi coperti di boschi e cascatelle bianche. Una zona dove trovi insediamenti sparsi aggrappati ai crinali, piccole case di pietra con fazzoletti di orti faticosamente strappati al bosco. Una dimensione diversa, un modello di paesaggio atipico per lo stesso Giappone. Nel cuore di questa valle, a Choiiri, negli anni Settanta comprò casa Alex Kerr, uno scrittore americano innamorato del Giappone. La sua abitazione di legno vecchia di 300 anni adesso offre ospitalità a suo modo spartana – una grande stanza riscaldata da camini a livello del terreno, tatami per terra, un persistente odore di fumo, un gusto minimal che diventa chic – in mezzo al cuore del paesaggio montano. Intorno nebbia e silenzio, poca gente che ha scelto di venire qui per allontanarsi dalla confusione perenne dei centri abitati. Con la sua scelta Kerr ha aperto la via a un turismo di nicchia, a suo modo lento, fatto di persone che vogliono staccare per qualche giorno da quell’apoteosi della modernità degli spazi urbani giapponesi. Così, a qualche chilometro dalla sua casa, c’è un intero villaggio di case di legno trasformato in alloggio per turisti in cerca di brandelli di passato.

Ma Shikoku perché è rimasta così? Come spesso accade, a preservare la natura dell’isola sono stati i collegamenti difficoltosi. Fino al 1988 non c’era altro che il traghetto per attraversare, in due o tre ore, le quiete acque del Seto, il mare interno che la divide da Honshū. Uno specchio d’acqua punteggiato da oltre 3mila isole, solcato da un numero enorme di imbarcazioni da carico che ne fanno uno dei tratti di mare più trafficati del mondo. Un mare che oggi si scavalca velocemente, sfruttando uno dei tre ponti costruiti negli ultimi 30 anni. Tra questi lo Shimanami Kaido, un sistema di nove ponti che collegano Imabari con Onomichi, sull’isola di Honsu. Un sistema a scacchiera che tocca in successione una dozzina di isolette dall’aspetto tropicale, coperte di densa vegetazione e punteggiate di piccoli borghi di pescatori. I maestosi ponti sospesi sono diventati un’attrazione turistica: accanto vi hanno costruito una pista ciclabile di 70 chilometri che è un prodigio di ingegneria. Ora scorre parallela all’autostrada, ora si avviluppa intorno a un pilone quasi fosse un serpente, ora corre tra i boschi, sempre offre una vista spettacolare di queste isole che sembrano buttate in mare come una manciata di biglie. Dall’alto si vede un paesaggio immenso: grandi spiagge bianche, qualche sparuto tempio, coltivazioni di agrumi e quell’ipnotico via vai di imbarcazioni che incrociano sotto i ponti. Su ogni isola, attrezzati posti tappa dove affittare bici e fare acquisti perché lo shopping è comunque religione di Stato. Che si affianca all’altra, onnipresente: il cibo. Ma anche in questo caso Shikoku è una specie di toccasana contro gli stereotipi. Sulle isole trovi una manciata di posti alla buona che servono le specialità della zona: pesci e una immensa varietà di molluschi, rigorosamente grigliati. Perché anche in Giappone non si vive di solo sushi.

Foto di Giacomo Fe'