di Marta Calcagno Baldini | Fotografie di Luigi Vitale
Prima buen retiro per la nobiltà imperiale austroungarica, poi teatro di guerra e dopo frontiera invalicabile tra la Iugoslavia e la Slovenia) e l’Occidente. Ora, abbattuti i muri, territorio fertile per recuperare la storia, produrre vini doc, sviluppare progetti artistici transnazionali
La stazione ferroviaria si trova esattamente sul confine: da una parte sei in Italia, un passo oltre la linea tracciata sul selciato e sei già in Slovenia. Eppure la città è la stessa: da una parte si chiama Gorizia, dall’altra Nova Gorica. Niente più carte d’identità, niente dogana: è una condizione particolare, che esiste, in Europa, solo per alcuni paesi situati lungo la linea Oder-Neisse, i 467 km che separano la Polonia dalla Germania dal 1945. Qui però siamo in Italia, in Friuli, e contemporaneamente in Slovenia. Siamo a Gorizia, dove la dimensione di confine non è solo geografica, si avverte forte, è un’energia diffusa che traspare dal bilinguismo, dai piatti tipici che hanno influenze della cucina italiana e slovena, come dalle differenze architettoniche e di stile di vita che esistono passando da Gorizia a Nova Gorica. È anche per questa convivenza tra idee e culture diverse che Gorizia si è candidata a essere Capitale europea della cultura per la prima data disponibile, il 2025. Insomma, due città opposte eppure unite in una, con aspetti comuni nonostante le grandi differenze.
«Fino al 1991 (anno in cui la Slovenia dichiarò la sua indipendenza dalla Repubblica socialista federale di Iugoslavia, ndr) al posto di questa semplice linea c’era proprio un muro con tanto di rete, matasse di filo spinato e i cani a controllare» mi dice Enrico, la mia guida, camminando lungo il confine davanti alla stazione. Ha l’aria di chi ancora rivive con ansia quel periodo, e sarà un sentimento che ritroverò spesso nelle persone, sia anziane sia giovani, quando raccontano gli anni fino al 1991.
Gorizia era divisa a metà: da un lato c’era la Slovenia socialista, dall’altro l’Italia. Nella stazione di Nova Gorica si trova anche il piccolo museo che si chiama proprio “sul Confine”: un’unica stanza che raccoglie fotografie, documenti, oggetti e memorie sulla storia di quel confine nei lunghi anni in cui fu una zona calda, ovvero dal 1945 al 2004 (anno dell’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea). Il tema della rivoluzione sovietica e di tutto il lungo periodo che in Slovenia va sotto il nome di socialismo iugoslavo vive nei ricordi degli abitanti, e lo testimonia anche la frequenza con cui l’argomento è proposto da musei e luoghi d’arte: ne è esempio la recente mostra La Rivoluzione Russa. Da Djagilev all’Astrattismo, 1898-1922 allestita a palazzo Attems Petzenstein per ricordare il centenario della Rivoluzione di Ottobre.
Gorizia, dunque, terra di confine e per questo teatro di conflitti anche durante la seconda guerra mondiale, con tracce ancora visibili: sul Castello, che domina la città, trionfa un leone della Repubblica Serenissima di Venezia scolpito sull’arco d’ingresso: «In realtà – continua Enrico – il simbolo di Gorizia è un’aquila bicipite, eredità dell’impero asburgico che dominò la città dal 1509 al 1918. Anche il Castello era molto diverso: durante la prima guerra mondiale fu distrutto, prima dagli italiani e poi dagli austriaci». Ora ospita continuamente nelle diverse sale delle mostre temporanee. Negli anni Trenta del Novecento, il restauro: ed ecco comparire il leone a simboleggiare l’italianità cara al regime fascista.
Gorizia è stata teatro di combattimenti soprattutto nella prima guerra mondiale: a pochi passi dal Castello ricorda quel periodo sanguinoso il Museo della Grande Guerra che si sviluppa nei sotterranei delle cinquecentesche case Dornberg e Tasso vicine anche a casa Formentini. L’insieme di questi palazzi nobiliari costituisce i Musei provinciali di Borgo Castello. Il museo espone i resti rinvenuti nelle vicine trincee, fotografie e documenti delle battaglie. Tra animazioni, ricostruzioni di luoghi, foto e video è descritta la durezza della vita dei soldati in trincea durante la Grande Guerra. Sempre tra le case Dornberg e Tasso si trova anche il Museo della Moda, che racconta invece l’altra faccia di Gorizia, quella dell’eleganza e della sontuosità degli abiti che indossavano le famiglie nobili austriache, italiane e slovene che vissero a Gorizia dal 1700 ai primi decenni del 1900 in un clima cosmopolita, di apertura e integrazione.
Al 1756 risale anche la costruzione della sinagoga, poi restaurata nella versione attuale nel 1894. Esattamente cento anni dopo, nel 1994, qui nasce il Museo Gerusalemme sull’Isonzo, per far conoscere la storia del popolo d’Israele e della comunità ebraica goriziana. Città di incroci mitteleuropei e internazionali, Gorizia dal XVIII secolo fu il luogo privilegiato per la villeggiatura di nobili, intellettuali e artisti che ruotavano intorno alla corte degli Asburgo. Per gli austroungarici Gorizia fu un po’ la Nizza dell’impero, il buen retiro anche della famiglia imperiale.
«Ancora oggi non tutti sanno dov’è Gorizia – spiega animatamente Carolina Levetzow Lantieri accogliendomi nel salotto di palazzo Lantieri che sorge in piazza S. Antonio, accanto al chiostro dell’ex convento francescano. – Ma già nel 1700 era un punto di riferimento mondano noto in tutto l’impero e venivano qui a cercare il microclima mite, la cultura e la bellezza». Il palazzo stesso è sempre stato un crocevia di personalità illustri che erano ospitate nelle numerose stanze della villa affacciate sul parco: «Sissi, la principessa di Baviera, poi imperatrice d’Austria e Ungheria, aveva una sua stanza qui da noi». Palazzo Lantieri era direttamente collegato al Castello di Gorizia con un sotterraneo per favorire eventuali fughe strategiche. «Anche gli ultimi reali di Francia dopo la Rivoluzione si trasferirono in città, furono ospitati qui. Alla loro morte (1836) preferirono essere sepolti a Gorizia piuttosto che riposare sul suolo della Francia che aveva tradito la monarchia».
Una tradizione di ospitalità che continua ancora oggi con protagonisti dell’arte contemporanea del calibro di Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Jan Fabre e altri, che hanno realizzato opere site specific sia dentro il palazzo sia nel giardino: «Invito qui gli artisti a lavorare, sono subito attirati quando dico che “questa è la terra dove si apre l’ultimo confine dell’impero”». La residenza sempre aperta su appuntamento per visite guidate, in alcune aree è anche un accogliente bed&breakfast. In piazza S. Antonio troviamo palazzo Strassoldo, oggi hotel Entourage, in cui dal 1830 sostò parte della corte borbonica in esilio dalla Francia. Ancora nel centro di Gorizia impossibile non capitare a palazzo Coronini Cronberg, progettato e realizzato alla fine del 1500 per il segretario degli Stati Provinciali Carl Zengraf. Fu un altro rifugio per i Borboni in esilio, come Carlo X. La villa, visitabile, è conosciuta forse ancor più per il suo parco, 46mila metri quadrati, espressione del turismo elitario dell’impero asburgico e della nobiltà che frequentò Gorizia per oltre due secoli. Per visitare le tombe dei sovrani francesi bisogna però ripassare il confine sloveno e inerpicarsi fino al vicino monastero di Castagnevizza.
È un attimo, e la stessa impressione avuta inizialmente alla stazione, di due realtà diverse che convivono, ritorna con insistenza: Nova Gorica è un chiaro esempio di una città tipica dell’Est europeo. Strade larghe, palazzi anonimi, tutti uguali, pochi negozi e poche persone per strada. Seduti su un muretto al di fuori del monastero che sorge su una collina all’inizio della valle del fiume Vipacco, a godere dell’ampia vista che abbraccia Gorizia e Nova Gorica, due anziani parlano fra loro. Uno domanda in sloveno, l’altro risponde in italiano. E lo stesso fa il frate francescano che mi accoglie: prima si rivolge a me in sloveno, ma appena gli rispondo in italiano si offre – parlando la mia lingua – di accompagnarmi nella visita. Tra i sepolcri degli ultimi re di Francia scopro che ora il convento è abitato da sette francescani che dirigono una scuola per bambini e un centro di recupero per tossicodipendenti. Frati che si prendono cura di questo luogo da quasi 200 anni, conservando anche una preziosa biblioteca di 16.500 volumi (anch’essa visitabile) tra i quali la prima grammatica della lingua slovena del 1584.
Ma le montagne che circondano Nova Gorica e Gorizia e che furono teatro della guerra di trincea oggi sono la stimolante sede di residenze, studi e atelier per una florida e vivace generazione di artisti nati negli anni Settanta e Ottanta: Špela Ivan, Luca Sirok, Christian Natoli, Aleksander Velišček, i nomi di alcuni di loro che abbiamo incontrato. Una ricerca e una produzione artistica, la loro, ricca di idee che nascono proprio dall’esperienza vissuta personalmente in quel territorio di confine. Parlano correntemente sia italiano sia sloveno e vivono le due parti della città senza distinzioni ma ricordano tutti i controlli di polizia cui erano sottoposti nel passato: ora lavorano, producono film ed espongono in tutt’Europa, ma la loro galleria di riferimento è la Turen (torre) nel paesino di Šmartno (San Martino, appena fuori Nova Gorica). Gli artisti stessi hanno rimesso a posto lo spazio trasformandolo in un atelier e sede per mostre. Grazie a questo luogo la cittadina sta rinascendo, compaiono nuovi ristoranti e hotel, e la vicinanza con Gorizia diventa sempre più una risorsa. Questo gruppo di giovani artisti sembra unito nell’idea di rappresentare con la propria arte il concetto di confine. In città a Gorizia ruotano attorno alla libreria Leg nel centrale corso Verdi, anche galleria d’arte e centro culturale.
Altro luogo di riferimento per questo gruppo di artisti è Taipana (Ud), piccolo borgo di 650 abitanti (frazioni comprese) al confine tra l’Austria e la Slovenia, a 62 chilometri da Gorizia. Grazie al suo illuminato sindaco Alan Ceccutti, poco più di 30 anni, vuole aprirsi all’Europa attraverso l’arte: dopo il terremoto del 1976 i borghi si erano quasi svuotati. «Ecco perché vogliamo investire sui giovani artisti – dice Ceccutti –. Finanziamo opere che stiano all’aperto perché le persone vengano a vedere e conoscere il territorio». Quelli invitati saranno sempre artisti di confine, italiani, boemi, polacchi, sloveni. «Vorremmo anche mettere in atto un servizio di navette transfrontaliere tra Italia e Slovenia, e recuperare i campi, in modo che i giovani tornino a fare gli agricoltori e i pastori in queste aree». E già alla periferia di Taipana si iniziano a vedere le prime aziende agricole aperte da ragazzi del luogo. Alessia Berra alleva pecore, al Campo di Bonis si trova un agriturismo con equitazione, a Casa Narauni è nato un altro agriturismo. Se a Montemaggiore, piccolo paese in pietra, oggi vivono solo cinque persone (prima erano 300) a Prossenicco, altra frazione vicina a Taipana, vivono già in 30. Qui si può vedere uno dei tre esemplari rimasti di “casa nera”: una povera abitazione tradizionale, con una porta senza ante, un caminetto senza comignolo e una scala esterna che porta al piano superiore dove si trovava la zona letto: il calore proveniva solo dal pavimento, scaldato dal camino.
A Prossenicco esiste anche un ristorante, l’unico del paese, che ironicamente si chiama Al centro: «Siamo al centro nel senso che siamo sul confine» mi dice Alba Melissa, che gestisce il locale col marito. «Nel 2015 ho riaperto l’osteria, che è della nostra famiglia dal 1901». Cucina tutto lei: selvaggina, baccalà, trippa, verdure e pietanze di stagione. «Tutte le sere ci troviamo qui, gli abitanti di Prossenicco, dalle 17 alle 19, e giochiamo a scala quaranta». Si parla un dialetto che esiste solo in questa micro frazione, una lingua inventata misto di sloveno con qualche parola in friulano. E poi c’è il vino. Dal monte Korada a nord fino al mare Adriatico, il Collio e la Brda (piccolo monte in sloveno) sono una mezzaluna fertile alle spalle di Gorizia con di più di 1500 ettari coltivati a vigna. Un’area vasta, dove perdersi per lunghe escursioni e passeggiate. Il cuore del Collio è il Cormòns, l’area intorno all’omonima città: alla fine del 1970 si riunirono vari viticoltori della zona (oggi sono più di 150) impegnandosi a rispettare un codice detto Quaderno di campagna per garantire la produzione di un vino che rispettasse l’ambiente e la salute dei consumatori. Gli oltre 400 ettari coltivati a vite dai soci della cantina sono conosciuti dal 1986 anche per il Vino della Pace: un vino simbolico, che nasce dalla “vigna del mondo”, una collezione di centinaia di vitigni provenienti da ogni nazione, prodotto e poi donato a ogni capo di Stato, civile e religioso, del pianeta. Ogni anno un artista diverso, da Arnaldo Pomodoro a Yoko Ono crea l’etichetta. E poi c’è il Vigne Museum, spazio aperto con un’installazione contemporanea nato nel 2014 per celebrare i cent’anni di Livio Felluga, il produttore di vino istriano rifugiatosi sul Collio per far risorgere la collina friulana con vini di qualità: i suoi quattro figli portano avanti l’impresa con la stessa passione per vino e arte.