Viaggiare leggeri. Il souvenir perfetto

La ricetta del poeta russo Osip Mandel’štam contro la proliferazione del ricordino kitsch e made in China

La parola d’origine francese souvenir ha conosciuto un sorprendente slittamento di significato. è entrata in uso alla fine del Seicento nella lingua italiana per indicare «un oggetto donato, conservato o ricevuto per richiamare la memoria di una persona». Ma, con il secolo del Grand Tour, il souvenir diventa il termine relativo ai viaggi, e non più alle persone, agli oggetti che si riportano per ricordo da un luogo visitato, come documentano puntualmente Manlio Cortellazzo e Paolo Zoli nel Dizionario etimologico Zanichelli.
Il commercio di souvenir trovò, soprattutto a Roma, un immediato fiorente sviluppo: dalle pietre antiche ai ritratti ambientati, dai pezzi d’artigianato ai profumi, dalla fine del Settecento tutto veniva venduto. Passa un altro secolo, o nemmeno, e il souvenir viene travolto dall’industrializzazione e tende a presentarsi sempre più come un trionfo del kitsch. Un altro giro di secolo, stavolta anche millenario, e siamo alla paccottiglia made in China. Così oggi è quasi impossibile non storcere la bocca, magari anche solo per sorridere, se non si vuole rinunciare all’acquisto del classico souvenir. E si può ben dire che sia ormai una missione impossibile, tornare da un viaggio con un ricordo più originale del solito. Al turista di oggi viene quasi più facile lasciare in giro qualche oggetto, che riportarne di nuovi.
Un osservatore straordinario e alquanto critico dei cambiamenti di costume sociali, come era lo scrittore Antonio Tabucchi, nel Duemila scrisse un racconto dedicato ai «Robinson del turismo organizzato» incontrati a Mérida nello Yucatàn, una delle mete messicane predilette dagli americani. E notò come negli hotel-villaggi restassero sempre tanti souvenir all’incontrario, soprattutto libri, del genere best-seller con grandi titoli in sovrimpressione color oro o rosso vivace, abbandonati a fine vacanza.

Ma in quanto ai souvenir di una volta è davvero illuminante l’esemplare scelta in favore dei piccoli sassi grigi, anonimi, di nessuna apparente bellezza, che  ci invita a fare Osip Mandelʹštam, il grande poeta russo perseguitato da Stalin e spedito a morire di stenti,  nel 1938, in un lager siberiano, dopo tre anni di esilio. Quando ancora la sua vita era relativamente serena, Mandelʹštam trascorse una vacanza in Crimea, a Koktebel, una famosa spiaggia  del Mar Nero che divenne il luogo d’ispirazione per una sua celebre opera su Dante. Racconta la moglie Nadežda Mandelʹštam (in Le mie memorie, Garzanti 1972) che un po’ tutti i turisti «avevano la mania di raccogliere i ciottoli che la risacca spingeva sulla spiaggia. Osip s’intestardiva a raccogliere certe pietre strane, ignorando le corniole e gli altri tesori» e solo qualche settimana dopo, scrivendo del nostro Sommo Poeta, rivelò che gli erano servite per cogliere il senso profondo dell’opera dantesca, «che congiunge l’incongiungibile», proprio come certe pietre sono una sorta di diario del tempo. Perciò, nell’esilio
di Voronezh, Mandelʹštam, dettando le ultime poesie alla moglie, che le mandò a memoria per preservarle dalla censura stalinista, tornò allo stesso tema.
Citiamo dalla nuova traduzione italiana di Maurizia Calusio tratta dai Quaderni di Voronež: «Compirò il rito color di fumo:/ in disgrazia stanno davanti a me/ le fragole dell’estate marina,/ le corniole a due fiamme/ e l’agata fratello-formica,/ ma a me più caro è il soldato semplice/ dell’abisso marino – grigio, grezzo,/ di cui nessuno è lieto».