di Isabella Brega
Non solo le spiagge affollate e la mondanità di Cancún e di Playa del Carmen. Per spingere un turismo “green” la regione ha sviluppato ecoresort, parchi naturali e hotel sostenibili, tutelando con più cura i resti della civiltà maya e le città coloniali
L’acqua dello Yucatán ha due volti. Quello sfacciatamente azzurro e mondano della Riviera Maya, che ne abbraccia le lunghe spiagge bianche e spumeggia festosa sotto il sole, e quello cristallino, segreto e umile, che scorre nelle sue viscere, mormorando sommesso nell’ombra. Un cuore acquatico, nutrito da un’intricata rete di vene sotterranee, batte al di sotto del suolo calcareo permeabile di questa appendice orientale del Messico, alimentando un complesso sistema di caverne e fiumi e riecheggiando la mitologia maya, che concepiva la terra come il dorso di un coccodrillo galleggiante su uno stagno fiorito.
Qui, dove il terreno cede si aprono enormi occhi blu o piccole cavità turchesi, sono gli oltre 2.500 cenotes della penisola, fantastiche cisterne naturali d’acqua dolce. L’acqua potabile dello Yucatán infatti non scorre sopra ma sotto la terra, colonizzando enormi grotte sommerse. È questo il caso di quelle di Sac Actun e di Dos Ojos, collegate fra loro, della lunghezza di quasi 344 km. Secondo alcuni dati, nella parte settentrionale della regione ci sono 358 sistemi di caverne subacquee, per un totale di 1.400 km di passaggi. Grazie a scalette a pioli o gradini di pietra è possibile calarsi nei cenotes e nuotare fra stalattiti e stalagmiti nel silenzio totale, il buio spezzato dal raggio di una pila. È quello che succede a Playa del Carmen, nel Río Secreto, una delle più note attrazioni dello Yucatán, che si è conquistato un posto fra le dieci migliori attività per famiglie nella classifica mondiale della National Geographic Society. I più esperti possono cimentarsi anche in vere e proprie immersioni, accompagnati da guide.
La riserva d’acqua dolce dei cenotes, una delle maggiori del mondo, sostiene una grande biodiversità e permette la vita dell’uomo. E questo già nell’antichità, come testimonia la stessa parola cenotes, derivante dal termine maya dzonot, che significa pozzo sacro. Pozzi fonte di vita ma anche dispensatori di morte. Nelle loro viscere infatti, accompagnate da ricche offerte, ciclicamente erano gettate vittime sacrificali per propiziarsi i terribili dei del pantheon maya, primo fra tutti Chac, signore della pioggia e guardiano dell’inframondo, di cui queste voragini costituivano l’entrata. Scheletri umani, ceramiche, oggetti ma anche conchiglie fossili, a dimostrazione di come anticamente questa terra fosse sommersa dal mare, furono ritrovati nei cenotes anche dai padri dell’archeologia americana: l’avvocato per professione, viaggiatore per passione e archeologo per elezione John Lloyd Stephens, nato nel New Jersey, e l’artista e disegnatore inglese Frederick Catherwood. Tra il 1839 e il 1843 i due, accompagnati in un secondo viaggio anche da Samuel Cabot, un medico appassionato di ornitologia, scoprirono 44 siti centroamericani, come Chichen Itza e Uxmal, e restituirono al mondo l’immagine di una civiltà di cui da oltre 400 anni si era smarrito anche il ricordo. Partendo dallo studio di diari e resoconti sei-settecenteschi come quelli di Lorenzo de Zavala o del capitano del Rio, questi Schliemann d’oltreoceano ritrovarono templi, città e strade maya, strangolate dalla vegetazione capricciosa ed esuberante e vittime del tempo.
Armati di due pistole, un machete, ma anche di strumenti topografici, risme di carta da disegno e di una camera lucida (uno strumento ottico utilizzato come ausilio per il disegno), non meno che di sigari, amache e zanzariere (che non li salvarono però dalla malaria), non passavano inosservati nei villaggi indigeni dove arrivavano: tre pazzi che andavano alla ricerca delle città di pietra nella foresta, catturavano le anime della gente con una cassetta nera (la camera lucida) e, grazie a Cabot, raddrizzavano persino gli occhi storti. Nei monumentali resoconti dei loro viaggi si ritrova anche una descrizione di Tulum, la spettacolare città maya che raggiunsero via mare. Grazie anche alla loro straordinaria e unica posizione, appollaiata sull’orlo di una rupe affacciata su una lunga spiaggia, le rovine del complesso risalenti all’anno Mille sono, insieme a quelle della spettacolare Chichen Itza, una delle principali attrazioni di tutto il Messico. Dall’esuberante vegetazione, ora addomesticata ma non vinta, spuntano vari edifici e il tempio con torri di guardia del Castillo, preceduto da una scalinata, ricco di incisioni e altorilievi di serpenti e divinità con coda e ali di uccello. Il tempo ha mortificato la violenta e quasi barbarica bicromia azzurra e rossa degli affeschi che ornavano gli interni degli edifici. La sacralità di questo luogo, difficilmente percepita dai rumorosi gruppi di turisti con guide, simili ad alunni indisciplinati condotti da maestri indulgenti e distratti dall’irresistibile richiamo della spiaggia sottostante, ritorna prepotente all’alba dell’equinozio di primavera quando, guidati da uno sciamano veterohippy, sulla spianata del complesso gruppi di giovani e meno giovani vestiti di bianco rendono omaggio agli elementi naturali. Tutto si conclude con grandi abbracci e sorrisi che fanno bene al cuore anche di chi non partecipa alla cerimonia.
Lasciato il complesso di Tulum, da non perdere una tappa a Cobá, pronti ad affrontare la salita dell’unico monumento maya ancora scalabile del Messico. Nel vasto parco archeologico i turisti si lanciano in improvvisate corse in bicicletta (affittabile sul posto) o spronano i guidatori di tuk tuk per essere i primi a raggiungere l’attrazione principale del sito, salire i 42 metri della piramide di Nohoch Mul, la più alta del mondo maya, godersi in beata solitudine la spettacolare vista e affrontare poi con minor spavalderia la pericolosa discesa. In questa impresa primeggiano i bambini, che si arrampicano agili come scimmiette usando mani e piedi e ridiscendono altrettanto agilmente sedendosi via via sui ripidi scalini. Sparsi nella vegetazione s’incontrano i resti di edifici sacri e l’area contrassegnata dai due anelli di pietra, posti verticalmente, che segnano il campo per il gioco della palla. Un gioco mortale, che obbligava i concorrenti delle due squadre a colpire con anca, gomito o ginocchio, protetti da fasce di cotone, una palla di gomma dura per cercare di farla passare attraverso gli anelli, del diametro di 15 centimetri. La posta in gioco era alta, molto. Mai come in quel caso contava il piazzamento: il capitano dei perdenti perdeva letteralmente la testa.
Dura, violenta, aggressiva come la sua arte, la civiltà maya non faceva sconti a nessuno. Divisa in tre classi, gli schiavi, i contadini, che non conoscevano gli animali da tiro, non avevano l’aratro e seminavano i chicchi di mais, il vero oro dei Maya, direttamente nel terreno grazie a bastoni dalla punta indurita dal fuoco, e i nobili. I potenti sacerdoti leggevano nelle stelle, compilavano il calendario ed erano i veri capi di un grande popolo che venne piegato da una manciata di conquistadores spagnoli.
Qualche ora di strada e la Carretera 180, fra boschi e piantagioni di agrumi, permette di raggiungere Valladolid, terza città dello Yucatán, a 160 chilometri da Cancún. Prototipo degli insediamenti legati alla colonizzazione spagnola, che schiacciò ferocemente l’altrettanto feroce civiltà maya, l’abitato è una sequenza di edifici dai colori pastello, bassi e con finestre protette da eleganti grate di ferro, che si diramano secondo un reticolo ordinato dalla verde e animata Plaza Cantón, dominata dalla cattedrale di S. Gervasio, della metà del XVI secolo. Negozi di artigianato, dai colori squillanti e affollati di teschi sorridenti e oggetti con decorazioni che scimmiottano l’arte onirica di Frida Kahlo, spiccano nel candore abbacinante delle strade, schiacciate da un sole martellante, alternati a patii quieti e freschi.
Dopo anni di un turismo affollato e caotico, lo Yucatán sta cercando una nuova strada. Ai megahotel standardizzati di Cancún e Playa del Carmen si affiancano ora ecoresort e strutture che conciliano comfort e rispetto dell’ambiente, servizi d’eccellenza e sostenibilità. È il caso degli hotel del gruppo Palladium nella Kantenah Bay, in particolar modo del rinnovato The Royal Suites. Riservato a un pubblico adulto, dotato di un’offerta personalizzata di alto livello, rappresenta l’evoluzione ecocompatibile del lusso. Per proteggere l’ambiente e minimizzare l’impatto generato dalla sua presenza, la struttura ha messo in atto un progetto per la riforestazione e uno per la protezione delle tartarughe marine, tutelandone i nidi e consentendo in cinque anni la nascita di 500mila animali. Tutti i rifiuti organici delle cucine vengono compostati con lombrichi californiani, si utilizzano solo materiali riciclabili o biodegradabili, lampadine a basso consumo e viene usato un sistema automatizzato per l’illuminazione e il condizionamento che rileva la presenza delle persone, ottimizzandone così l’uso, mentre l’acqua potabile è prodotta con depuratori a osmosi inversa. Perché oggi anche il lusso può e deve essere a portata d’ambiente.