di Clelia Arduini | Foto di Giuseppe Carotenuto
Altro che chef stellati e resort sfarzosi: il vero lusso è godere dell’ospitalità rustica delle suore del terzo millennio
Mani piccole e screpolate lavorano giorno e notte senza fermarsi mai e ammassano, intrecciano, raspano, lavano, strusciano, battono, premono, pregano. Sono quelle di madre Ildebranda che, insieme alle religiose Scolastica, Maria Grazia, Teresa, Giuseppina, Berta, Ester, Giacinta e Giuliana, tiene in vita il monastero benedettino di S. Caterina d’Alessandria a Cittaducale, in provincia di Rieti, sul limitare della Valle Santa, tanto cara a S. Francesco: un monumentale bene culturale al centro del paese con museo, biblioteca, casa vacanze con dieci camere e poi giardino, chiostro, foresteria, cucine, refettorio e decine di altri locali tirati a lucido, che la formidabile squadra di benedettine di clausura – due italiane avanti negli anni e sette africane più giovani – percorre in lungo e in largo senza risparmiarsi. Il monastero del Reatino è uno dei numerosi conventi del nostro Paese, che offre vitto e alloggio proponendo un soggiorno alternativo in equilibrio tra sacro e profano, dove il relax e la tavola sono al centro di un’accoglienza speciale, umana, che fa bene al corpo e allo spirito. Siamo andati a visitarlo per scoprire i segreti culinari delle benedettine, tra la penombra e gli squarci di luce di antichi ambienti marmorei che suscitano curiosità, rispetto, appetito. La giornata inizia alle cinque con la campana della chiesa che da oltre settecento anni infonde una scossa alla comunità e chi un giorno ha protestato per quel suono “molesto” è stato zittito perché le tradizioni non si possono interrompere e le suore non si toccano. Le figurette svolazzano come rondini negli immensi spazi che risalgono al 1327, data in cui venne fondato il convento, pochi anni dopo la nascita del borgo angioino. C’è chi si occupa del verde e dell’orto, chi della biblioteca con oltre 3.000 volumi, chi, in cucina, elabora antichi piatti e rinnova ogni giorno con semplici gesti una millenaria arte culinaria, che ha avuto origine proprio tra le mura dei monasteri e delle abbazie medievali d’Europa.
In queste isole di pace e di silenzio – oggi tappe fondamentali per i pellegrinaggi e il turismo culturale – si svilupparono tecniche agricole e alimentari, ma anche mediche, che diedero vita alle basi della cucina e della gastronomia dei territori, oltre all’educazione e alla cultura del cibo. Con il tempo l’antica Regola di San Benedetto si è amalgamata alla contemporaneità, pur conservando i suoi tratti fondamentali basati sull’essenzialità e la semplicità dell’alimentazione. «La Regola – spiega Madre Ildebranda – prevedeva un pasto il giorno e la sera una leggera ‘collazione’ (da Collazioni, la raccolta di testi letti durante questo pasto)». Una definizione che scandisce ancora oggi la nostra giornata e che ci rende felici perché vuol dire pausa, riposo, soddisfazione del palato. Una suora fa suonare nel chiostro una delle quattro campanelle del convento: sono squilli acuti che rimbombano tra le monumentali e solitarie stanze e avvisano che è l’ora di pranzo. E mentre le sorelle trotterellano al desco, un aroma di buono si diffonde nel refettorio: oggi, come primo piatto, il convento passa la ciciata, manicaretto tipico di questo monastero la cui ricetta si tramanda “dalla notte dei tempi”. «Sono semplici quadratini di pasta fatta con farina e uova – spiega madre Ildebranda – che si friggono in abbondante olio e poi si buttano per una decina di minuti in un brodo di carne». L’assaggio è d’obbligo e nel silenzio della cucina la ciciata si scioglie in bocca, quadratino dopo quadratino, come crema antica, brodo primordiale delle nostre radici, che racconta del tempo in cui poveri, malati, nobili e pellegrini, bussavano alle porte dei monasteri in cerca di ospitalità e protezione, e bisognava nutrirli con quel che c’era in dispensa. Fra una tradizione e l’altra, c’è un intermezzo culinario multietnico, perché l’integrazione fra religiose italiane e straniere, in tutti i conventi italiani, è ormai una consolidata realtà, che assicura continuità di vocazione e vitalità di chiese, monasteri, abbazie e conventi, altrimenti chiusi. Ecco il manicaretto di suor Maria Grazia, nigeriana, che ogni tanto propone alle consorelle una sorta d’insalata di riso condita con tanto peperoncino cui aggiunge aromi della sua Africa. La religiosa è orgogliosa del suo piatto e mentre lo dispone sul tavolo, accenna a un passo di danza. «Suor Maria Grazia è così – raccontano le altre – ora et labora et… balla».
Sulla tavola imbandita arrivano anche le tisichelle, ciambelline a base di semi di anice con farina bianca, un pugno di “tritello” (farina nera), zucchero e poca acqua, che si cuociono in forno per 15 minuti e poi si mettono ad asciugare all’aria. Sotto i denti, all’inizio, sono durissime poi, pian piano, s’ingentiliscono rivelando alle papille la forza digestiva dell’anice che, come droga, induce a mangiarne una dopo l’altra. Fino alla fine del piatto. Un “dolce dei poveri”, tipico dell’Italia centrale, pensato per accompagnare, a fine pasto, un bicchiere di vino dove s’inzuppava per essere ammorbidito, o per nutrire religiosi e commercianti in viaggio grazie ai lunghi periodi di conservazione consentiti dalla sua preparazione. «Ce li chiedono in grandi quantità, specie dalla Sicilia, ma noi – spiega Madre Ildebranda – non abbiamo la forza lavoro sufficiente per produrli quindi chi vuole assaggiarli deve venire qui, al monastero». Intanto si pensa già alla cena e suor Scolastica, prima di scivolare in cappella per i vespri, dispone sulla tavola uova, mollica di pane e parmigiano per le passatelle, altro piatto a chilometro zero del convento. Il rito del cibo ricomincia ed è continuità, energia, vita. è invece silenzio mortale nel monastero benedettino di S. Maria del Monte, dal 1555 nel centro storico di Bevagna (Pg), che ha chiuso i battenti tre anni fa. Le ultime religiose sono state trasferite altrove, ma è salva l’antica ricetta degli gnocchi ripieni che le suore hanno preparato per secoli nelle festività. Il testimone è passato alle donne di buona volontà della comunità umbra, come Silvia Sposini, titolare del negozio La casareccia (corso Matteotti 56, tel. 0742.361969) e maga della pasta fatta in casa. «Con farina, patate e uova si prepara l’impasto degli gnocchi – racconta – poi lo si stende riempiendolo di ricotta di pecora e di parmigiano, quindi si taglia dandogli la forma di un raviolone e si butta in acqua per la cottura. C’è anche la versione povera degli gnocchi ripieni, si chiamano picchierilli, ritagli di pasta cui si aggiungono patate, olio e noce moscata». A questi antichi piatti è dedicata pure una grande festa gastronomica, Lo gnocco del torrione, organizzata in estate dalla pro loco di Torre del Colle, frazione di Bevagna, con migliaia di visitatori che gustano le pietanze nate nel silenzio di un chiostro da mani piccole e screpolate che hanno ammassato per secoli. Se i conventi diventano piazze o mense turistiche, può accadere che, al contrario, un ristorante si trasformi in missione. è il caso de L’Eau vive, a Roma, al piano terra di Palazzo Lante, gestito da missionarie laiche devote alla Madonna e originarie da vari Paesi del mondo. I piatti proposti sono per lo più di tradizione francese e ogni sera, con la preghiera dell’Ave Maria invocata per ringraziare il cibo che si sta per condividere, i benedetti manicaretti, come la zuppa di cipolle e la mousse di paté, sembrano illuminarsi e tutto appare più buono. Perché quello che passa il convento, versione genius loci del Terzo millennio, è il fondamento del mangiare e del vivere in armonia e intimità, manna preziosa per anima e papille gustative, linfa di felicità e, chissà, di eternità.