di Giuseppe Scaraffia
Lo scrittore Hans Christian Andersen visse per un anno nella capitale, sentendosi a casa
«Sia lodato il Cielo! Tra poco si mangia!», gridò Hans Christian Andersen scorgendo da un’altura, dopo un lungo viaggio, Roma e S. Pietro. Andersen era molto alto per l’epoca, un metro e ottantacinque. Quel giovanotto un po’ curvo, aveva «il viso pallido come quello di Werther, il naso possente come un cannone, gli occhi minuscoli come piselli». Ben conscio dei suoi difetti, cercava invano di riequilibrare la sproporzione dei tratti con l’inseparabile, altissimo cilindro. «è proprio vero, Roma è l’unica città del mondo in cui uno straniero senza famiglia e senza conoscenze riesce a sentirsi come a casa propria». Scrutava l’aspetto cangiante delle strade, «il cui particolarissimo colore trasmuta ad ogni passare di stagione». A tratti la bellezza sembrava sopraffarlo. «Come non credere di sognare una fiaba irreale? E invece no, tutto è reale, meravigliosamente reale». Rimase impressionato dal Colosseo. «Che silenzio di morte, che immensità! Le pietre intorno a noi hanno voci e, alte sulla nostra testa, le stelle corrispondono con loro… il Colosseo ci fa una predica sulle vicende della vita, sulla grandezza e sull’impotenza della stirpe umana». Alta e stretta, la casa che aveva affittato, in via Sistina 104, all’angolo con via Crispi, gli somigliava curiosamente. «Ho trovato questa piccola stanza sotto il tetto, da qui posso vedere tutta Roma». Quando al tramonto le nuvole brillavano «di riflessi viola sul fondo giallo come oro», gli veniva voglia «di spiccare il volo al di sopra del Quirinale, al di là dei palazzi, fino ai grandi pini che svettano come ombre cinesi sull’orizzonte infuocato». Frequentava artisti del Nordeuropa. A Natale nel 1833 il tempo era così bello che Andersen e amici decisero di passarlo in una zona allora esterna alla città, Villa Borghese. Come albero di Natale usarono un grosso arancio carico di frutti, ma quando decisero di rientrare dovettero bussare alle porte di Roma. «Chi è?». «Amici!»
Malgrado fosse rimasto abbagliato dalle luminarie di Carnevale, lo scrittore non riusciva a dimenticare alcune lettere malevole che gli arrivavano dalla Danimarca. A Pasqua volle assistere all’illuminazione della cupola, il momento in cui, nella Settimana Santa, S. Pietro risplendeva con una profusione di lampade. Si stava dirigendo verso il Vaticano quando la folla lo aveva separato dagli amici, trascinandolo sul ponte S. Angelo. «Nella calca mi sentivo vicino a svenire, ero scosso da brividi». Ma, intuendo che se fosse venuto meno sarebbe stato calpestato, si fece forza e proseguì. La vigilia della partenza Andersen dormì male, tormentato da un pensiero. Gli avevano detto che solo bevendo l’acqua della fontana di Trevi si poteva essere sicuri di tornare a Roma. Quando la carrozza passò davanti alla fontana, Andersen non esitò, affondò le dita nell’acqua e bevve pensando sollevato: «Tornerò».