di Tino Mantarro | Foto di Oliver Föllmi
Da 40 anni il fotografo francese Oliver Föllmi frequenta il Tibet che ha raccontato in sette libri e migliaia di scatti. Ora ha immortalato anche il pellegrinaggio più sacro per i buddhisti, al monte Kailash
Potrebbe anche essere un parto della fantasia, e invece è reale. Reale ma poco conosciuto, eppure il monte Kailash, con i suoi 6638 metri di quota è sacro per un quinto della popolazione mondiale: gli induisti ritengono sia la residenza di Shiva, i giainisti indiani lo venerano come il luogo in cui raggiunse la liberazione il primo dei loro santi. Per i buddhisti tibetani è semplicemente il centro dell’universo. Ma la montagna è sacra anche per l’antica religione tibetana del Bön e perfino per gli zoroastriani. Per tutti i fedeli è meta di un pellegrinaggio da compiere almeno una volta nella vita. Una meta simbolica, cui tendere con le preghiere e aspirare con il pensiero. Per i credenti rappresenta una scala tra la luce e le tenebre. Una meta difficile da raggiungere, perché la vetta del Kailash – il gioiello delle nevi – si trova nella parte occidentale del Tibet, la regione autonoma cinese, non distante dal confine nepalese. Dal 1962, quattro anni prima della Rivoluzione culturale, fino a tutti gli anni Ottanta i governanti cinesi proibirono i pellegrinaggi di indiani e nepalesi. Ciò non di meno i devoti continuarono a compiere i giri rituali intorno alla montagna, di nascosto.
Oggi chiunque può andare, ma bisogna aggregarsi a una spedizione organizzata e di certo i cinesi non fanno nulla per facilitare il viaggio. Il pellegrinaggio consiste in un giro rituale intorno alla vetta, il kora: un solo giro – circa 50 chilometri che si percorrono in 36 ore di sofferenza, perché la fatica è elemento essenziale per la redenzione – lava via i peccati di un’intera esistenza. Ma è una camminata non semplice, vista l’altitudine (ci si muove a 5mila metri) e le condizioni meteo avverse. Geograficamente il Kailash è una montagna himalayana; discosta dal resto della catena, ma centrale per l’idrografia del subcontinente indiano: qui si trovano le sorgenti dei quattro grandi fiumi indiani, l’Indo, il Gange, il Setlej e il Brahamaputra. Le sue pendici sono inviolabili, il monte non è mai stato scalato, né mai lo sarà.
IL LAVORO DI OLIVIER FOLLMI
Non esiste un cammino verso la felicità, la felicità è il cammino. È la massima di Buddha Shakyamun che il fotografo francese Olivier Föllmi ha fatto sua per tutta la vita. Una vita di viaggi ed esplorazioni con l’Asia come destino, fin da quando, neanche maggiorenne scoprì l’Afghanistan e le sue vette. Lì è scoccata la scintilla con gli immensi paesaggi montani dell’Asia centrale fino a scoprire, nel 1979, la valle tibetana di Zanskar (oggi in India), tra le più remote e isolate del pianeta. Da allora ha fatto spola tra due mondi: l’Occidente e il Tibet, fermandosi a vivere per 15 anni tra monasteri buddhisti a 4mila metri e poverissimi villaggi, iniziando ad accompagnare spedizioni turistiche sulle vette e nelle valli della zona.
In tutti questi anni non ha mai smesso
di scattare, divenendo per un periodo il fotografo ufficiale del Dalai Lama. Dal 2004 ha iniziato un progetto pluriennale per illustrare il significato di saggezza secondo le grandi tradizioni religiose e filosofiche dell’umanità. Un lavoro pubblicato in sette libri tradotto in nove lingue. Nella sua lunga carriera ha pubblicato 35 libri e venduto oltre un milione e 600mila copie. Per Olivier Föllmi Ritorno nel Tibet. Un pellegrinaggio al monte Kailash (260 pagine, 29,90 €, edito da Ippocampo), il volume da cui sono tratte le fotografie di queste pagine, è il coronamento di un sogno: il pellegrinaggio sempre rimandato alla vetta più sacra del buddhismo tibetano.